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#10 E’ primavera, Piergiorgio

Quando si arriva in fondo a una storia l’emozione è forte per ciò che si è provato nel percorso che ha condotto alla fine. Questo racconto a puntate mi ha permesso di scavare dentro il mio animo e di sfogare ansie e preoccupazioni, ma anche di divertirmi insieme a Piergiorgio ed Edoardo. Molti di voi mi chiedono chi sia Marina, o Gargamella, o gli altri personaggi di questa storia. Preciso che è tutto frutto di fantasia, che non esiste nessuno di loro o forse sono tutti reali! Di vero ci sono i sentimenti che hanno condotto alla fine, che probabilmente è solo l’inizio.

Dedico il capitolo 10 a Clara, nata il 7 aprile 2020 alle ore 21.48 e ai miei amici Pietro e Teresa. Grazie, Clara, per avermi fatto superare le mie paure.

Se non fosse stato per l’improvviso rialzo delle temperature, Piergiorgio non si sarebbe accorto che la primavera era arrivata.

Il mondo girava senza percepire ciò che stava accadendo. Era il sette aprile e sembrava un giorno come un altro. Trascorrevano tutti uguali, inesorabili. La vita era cambiata. Molte aziende erano sull’orlo della bancarotta. La popolazione soffriva e aveva fame. E non c’è niente di più pericoloso di un popolo affamato. Al sud una buona fetta dei cittadini viveva di lavori in nero, retribuito a giornata, ma le restrizioni dello Stato non consentivano nemmeno di uscire di casa, figurarsi andare a lavorare.

Piergiorgio attraversò il marciapiede, quando una volante della Polizia di Stato lo accostò.

— Buongiorno. — Il poliziotto abbassò il finestrino e lo squadrò dai capelli (pochi rimasti) ai piedi. Era un cinquantino con le spalle di Sylvester Stallone, i bicipiti di Arnlod Schwarzenegger e la pancia di Bud Spencer.

— Buongiorno.

Dove sta andando? — chiese, con in volto stampato il ghigno di chi ha beccato un altro trasgressore.

— In ospedale.

— Se ha la febbre non può.

— Non ho la febbre, sto bene.

— Potrebbe essere asintomatico.

— Non sono malato.

— E allora mi dia un documento. Lei sta commettendo un illecito. — Il poliziotto aprì lo sportello e fece per uscire dall’abitacolo con fare minaccioso.

— Io sono un rianimatore.

Il tempo si fermò.

— Come ha detto? — chiese il poliziotto, con gli occhi sgranati.

— Ha sentito bene: sono un R I A N I M A T O R E.

— E dove lavora?

— Al Sisalvichipuò.

— Mi scusi se l’ho importunata e mi scusi se le sto facendo perdere tempo. Vada pure e buon lavoro.

Il poliziotto salì sull’Alfa d’ordinanza.

— Se vuole le mostro il tesserino.

— No, vada vada. Anzi la scortiamo noi con la sirena.

— Non è necessario. Non c’è traffico.

— Insisto.

— Faccia come crede, ma…

Non ci fu verso. Piergiorgio raggiunse l’ospedale a bordo della sua utilitaria, preceduto dalla Polizia a sirene spiegate.

Il 2020 era stata la svolta per i rianimatori. Piergiorgio entrò in ospedale camminando sulle acque, a discapito dei vangeli.

Al Sisalvichipuò Hospital il tempo trascorreva inesorabile, mentre l’on. Curcuruto, nella sua villa con capitelli d’oro intarsiati e piscina olimpionica, sparava minchiate a raffica sui social network, adescando folle impazzite, desiderose di mettere like e di commentare in un italiano da quinta elementare ogni genere di notizia.

Il dottor Muccalapuni nel frattempo percorreva il perimetro della sua stanza, attendendo la nomina a direttore di dipartimento. Non avrebbe mai più detto di no all’on. Curcuruto, suo intimo amico: calzoni calati e culo a ponte, nei secoli dei secoli. Amen.

Piergiorgio era silenzioso. Guardava lo Smartphone. Marina non rispondeva ai suoi sms. Era irritata per quanto accaduto il giorno prima con Uberto Desiderio e il repentino soccorso che gli aveva negato. Ma alla fine dei conti il risultato era stato una pantomima da premio Oscar alla faccia di Benigni. La messa in scena era stata orchestrata per conquistare il cuore di Marina, ma era finita male. Piergiorgio era riuscito a spuntarla, ma la bionda fausa era un osso duro. Aveva un caratterino indomito e aveva bisogno di tempo per sbollire l’incazzatura. Non poteva nemmeno abbonirla con un mazzo di fiori, perché qualcuno aveva rubato le rose che la sua vicina di casa curava nel giardino. Era anche uscito un articolo su 24calarialive che alludeva a un ladro impavido che addormentava i cani per derubare i fiori. L’isolamento era anche questo: follia!

Marina era il culo più bello del Sisalvichipuò ed era sua: proprietà privata di Piergiorgio Morfina, anestesista-rianimatore del Sisalvichipuò Hospital. Il primo che l’avesse sfiorata con lo sguardo, sarebbe finito a testa sutta e pedi all’aria.

Lo Stromboli fumante era lo spettacolo che si vedeva dalle finestre della rianimazione. Quel panorama mozzafiato era stato il motivo principale per cui Piergiorgio aveva scelto come sede del contratto a tempo indeterminato Pizzo Calabro. Ma quella scelta gli aveva regalato Marina. E tanto bastava per renderlo il rianimatore più ricco del mondo.

Cazzeggiava sui social e fumava una Marlboro attraverso la mascherina chirurgica, mentre si sentiva nella poesia “Soldati” di Ungaretti: Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie. Nonostante fuori la primavera imperversava impertinente, lui si sentiva in bilico, pronto a rischiare la sua salute e quella dei suoi cari per un virus bastardo.

In quel momento arrivò il primo sms, ma lo ignorò. C’era l’isolamento e tutti inviavano catene di S.Antonio e vignette che lo facevano piangere anziché ridere.

Poi un altro sms.

E un altro.

Alla fine il telefono squillò. Era Edoardo, il suo amico scrittore.

— Come è andata?

— Cosa?

— La poesia, rimbambito!

— Bene. Sei stato fantastico. Poi dovrai dirmi a chi erano realmente dedicati quei versi.

— Sono uno scrittore maledetto e non so cosa sia l’amore — precisò Edoardo.

— Puoi far credere quello che vuoi e metterti la maschera che preferisci, ma non insultare la mia intelligenza. Tu sei innamorato perso! — Piergiorgio allentò la mascherina. Non la sopportava più.

— C’è una donna che mi piace, sì… è vero… ma… è gravida!

— Minchia! Sei nella merda, amico mio!

— E me lo hai tenuto nascosto! — Piergiorgio saltò dalla sedia. Accese l’ennesima sigaretta della giornata e fu assalito dalla voglia di bere. Quello sì che era uno scoop!

— E che dovevo fare? Non avresti capito… ma ora anche tu hai il cuore nello zucchero!

— Siamo due diabetici inguaribili! — disse Piergiorgio.

Poi risero.

— Ti chiamavo per una cortesia.

— Certo. Spara!

— Lei si chiama Sara, ha ventisette anni. Per ora è sopra. Ha dolore. Dilatazione 3 cm, collo appianato.

— E tu? Dove sei?

— Che domande fai! Ho un po’ di tosse e non mi fanno entrare. Sono asserragliato in casa!  — Il tono di voce di Edoardo si incupì.

Piergiorgio aspirò forate dalla sigaretta. Poteva solo immaginare lo stato d’animo del suo amico.

— Dovresti salire sopra e falle quella stregoneria che sapete fare voi rianimatori.

— Cosa?

— La partoanalgesia.

— Ma noi qui non la facciamo, siamo pochi, non possiamo… ci siamo sempre rifiutati…

— Non te lo chiederei se non fosse importante per me.

Piergiorgio non esitò. Spense la cicca nel posacenere, poi disse: — Va bene, amico mio!

L’ostetricia era al terzo piano. Piergiorgio evitò di incrociare Nadia Canotto, sarebbe stata una peridurale ficcata chissà dove. Si imbatté in una giovane moretta con i capelli a caschetto (che se la tirava manco fosse Madonna) di cui non ricordava il nome. 

— Ciao, sono qui per…

— Per?

— … una mia amica…

— Come si chiama?

Come minchia si chiamava? Nemmeno il cognome si era fatto dire da Edoardo.

Prese lo smartphone e stava per comporre il numero, ma il suo amico era stato più lesto e lo aveva informato tramite sms

— Sara Addis — disse Piergiorgio, dopo essersi rassettato la maglietta nera, che lo snelliva di una taglia.

— Sì, mi segua.

— Gradirei fare l’analgesia in travaglio di parto.

La moretta lo guardò, dopo essersi fermata in mezzo al corridoio.

— Ma lei lo sa che non ne facciamo perché quelli come voi non hanno mai dato il benestare perché sotto organico?

Come darle torto.

— Sì… lei ha ragione… però… questa è una mia amica.

— Ancora peggio! Ancora peggio! Una raccomandata! —  La moretta iniziò a martoriarsi i capelli.

— Senti, me la fai fare o no?

— Faccia quello che vuole!

Sara Addis era una grandissima scassaminchia e non comprendeva come Edoardo se ne fosse innamorato. Si lamentava per la vena, per la peridurale, per il dolore, persino per la gravidanza.

— Cosa nasce? — chiese Piergiorgio per rompere il ghiaccio.

— Una femminuccia.

— E come la chiamerà?

— Artemide.

— Come mai?

— Chiedilo al tuo amico!

— Lui è fissato con i miti greci. Lo so…

Sara Addis era sola. Purtroppo anche le nascite avevano subito una netta secessione tra ciò che si faceva prima della pandemia e ciò che si faceva dopo. Niente fiori e regali, ma soprattutto niente stanza piena di gente che bacia e accarezza puerpera e prole. Niente prosecco (ma solo perché Edoardo era taccagno) e niente familiari fuori.  Artemide sarebbe nata con la sua mamma e al nido non la avrebbe vista nessuno.

La peridurale andò bene. Per Piergiorgio fu una delle migliori partoanalgesie che avesse mai fatto. Ci aveva messo tutta l’attenzione possibile.

— Grazie, Edoardo ha un amico speciale.

Piergiorgio sorrise e mosse piccoli passi verso l’uscita. Una delle cose che lo facevano commuovere erano i parti. Piccole creature che prendono vita. Per un istante avrebbe voluto essere ostetrico, chissà che ebrezza tenere in braccio quei marmocchi morbidi intrisi di purezza. Artemide che ne poteva sapere della pandemia?

In quel momento si sentì chiamare. Era l’ostetrica.

— La prenda in braccio.

Piergiorgio tremava. Era freddo, cinico e stronzo, ma dinanzi al mistero della nascita tornava il mammalucco imbambolato davanti a Marina. Allungò le braccia e la strinse a sé. Era piccola e morbida. Lacrime calde gli rigarono le guance, mentre fuori lo Stromboli iniziava a mormorare. Quella nascita rappresentava la speranza di quel domani che sarebbe stato per lui la felicità che aveva sempre sognato e inseguito, ma che non aveva mai colto.

Lo smartphone squillò. Era un sms che recitava: ti amo. Anche un carattere indomito come quello della bionda poteva essere mitigato dal sentimento più grande che esiste: l’amore.

Si specchiò negli occhi nocciola della piccola Artemide e vide dentro il suo domani: mano nella mano con Marina, mentre dinanzi a loro l’orizzonte non sembrava per niente distante. 

E non ebbe più paura.

FINE

© Antonino Genovese

#9 Eparina

Il turno di guardia era cominciato come ormai avveniva da oltre trenta giorni. Niente baci, abbracci o pacche sulle spalle. Resistevano sorrisi forzati a battute stentate, pronunciate a denti stretti. Le abitudini erano cambiate e le cene in compagnia erano annullate, ognuno provvedeva per sé. Gli sguardi era intrisi di paura e diffidenza.

Piergiorgio pranzò con la solita accoppiata mela e banana. Cercò lo specchio in bagno, ma era stato divelto e posizionato nella stanza vestizione. Doveva smaltire la pancia da muratore, ma alla birra non riusciva a rinunciare. Potevano togliergli tutto, ma non la sua Cristalli di sale, in tal caso avrebbe alimentato i nuovi vespri: la birra Messina non dovevano toccargliela.

Quella mattina di fine marzo sembrava tranquilla. I contagi in Calabria non stavano raggiungendo i livelli della Lombardia. Non comprendeva se fosse per l’esiguo numero di tamponi effettuati, per le misure restrittive di isolamento, perché un dio li stesse proteggendo oppure (ipotesi più plausibile) era solo un colpo di culo.

Piergiorgio si sentiva in un film messo in pausa. Tutto si era arrestato. E anche la sua storia d’amore ne risentiva. Avrebbe voluto uscire, passeggiare e gridare al mondo che Marina era la donna della sua vita, ma non poteva. Il virus made in Cina stava affossando la società moderna, seppellendo abitudini e modi di vivere. Quando tutto sarebbe tornato normale, non sarebbe più stato lo stesso. Quello che prima era scontato, come un aperitivo con gli amici, la presentazione del libro di Edoardo, andare in palestra o correre sul lungomare, andava meritato e conquistato. L’umanità non aveva capito che la libertà era un dono. Così come lo era Marina per lui. Un regalo inaspettato, mentre le sabbie mobili lo inghiottivano. Era la sua alba. I contorni delle cose stavano di nuovo prendendo forma, anche le più banali. Maledetta pandemia! Ma non tutto era perduto. Se fosse sopravvissuto, non avrebbe perso nemmeno un secondo dietro minchiate che non lo rendevano felice. Avrebbe fatto solo ciò che desiderava e lo faceva stare bene.

Si crogiolava tra una Marlboro e l’altra in pensieri esistenziali, quando il telefono squillò per un codice rosso in pronto soccorso. Era il caso di un paziente “normale”, senza febbre o sintomi respiratori. Si trattava di arresto cardiaco che nulla aveva a che vedere con il coronavirus. Ma scese imbracato con ciò che riuscì a racimolare senza intaccare l’esigua scorta per le urgenze COVID accertate.

— Che succede?

— Un IMA.

— Laringo e tubo — ordinò perentorio Piergiorgio.

Quel codice rosso aveva una parvenza di normalità. Un caso grave, certo, dove serviva il sangue freddo e il cinismo di chi, come lui, era nato e viveva di scariche di adrenalina. Era la sua professione e nessuno poteva togliergliela.

— Adrenalina, dài!

Piergiorgio manteneva la calma, si esaltava nei casi spinosi. Gli piaceva stare in mezzo al caos dell’emergenza e dirigere la nave, mentre tutti pendevano dalle sue labbra. Un uomo solo al comando. Si sentiva Marco Pantani su l’Alpe d’Huez e durante tutta la rianimazione cardiopolmonare la paura del coronavirus lo abbandonò e si sentì di nuovo un anestesista-rianimatore. Ma non tutte le fiabe hanno il lieto fine, e quell’arresto cardiaco, scaraventato dal 118 in sala rossa, era finito male. Il rianimatore non è Dio. È fatto di carne e ossa. E il cuore di quel paziente non era ripartito. Piergiorgio si tolse i guanti, rimosse il tubo orotracheale e si sedette su uno sgabello.

— Chiamatemi i parenti — disse. Era sempre compito suo dare la triste notizia.

— Quali parenti? — chiese la collega del pronto soccorso, truccata, pettinata e perfettamente impupata nel suo camice bianco. In pratica non aveva alzato il culo dalla sedia. In fondo c’era il rianimatore.

— Quelli del paziente. Dobbiamo comunicare l’exitus. — Piergiorgio era stranito per la domanda.

— Non può entrare nessuno. Siamo in pandemia.

— E la salma?

— Vai in obitorio. Ci penseranno le onoranze funebri.

— Nessuno potrà piangerlo? Stargli vicino? Salutarlo?

Piergiorgio si alzò. Trattenne un singulto. Si stava rincoglionendo. Marina aveva tirato fuori una parte di lui che non conosceva, sepolta da trentasei anni di inverno. Lui era il dottor Morfina, cinico e freddo rianimatore di provincia. Eppure una lacrima prese possesso della sua guancia al pensiero che il paziente sarebbe morto solo, senza un amico a vegliarlo per l’ultima volta, né un funerale per l’ultimo estremo saluto.

Piergiorgio non credeva in una vita dopo la morte, né in un dio o nelle entità sovrannaturali. Ma alla morte, con cui tutti i giorni conviveva, aveva sempre dato dignità. Era stato il primo insegnamento del suo Maestro, disperso anche lui tra le sabbie del tempo. Gli venne in mente proprio lui, il Maestro, e la dottrina che andava aldilà della tecnica e della farmacologia: l’idea di anestesista-rianimatore, la figura che sta in mezzo al paziente, al chirurgo e ai pazienti, e coordina eventi eccezionali e drammatici. Sempre nella merda, a togliere le castagne dal fuoco, con ferie arretrate che non avrebbero mai smaltito, gli anestesisti-rianimatori dovevano al coronavirus la visibilità che negli ultimi vent’anni non avevano avuto.

Un’altra lacrima.

Ora basta, ecchecazzo!

Fumò una Marlboro e resettò il software. Era ora di tornare cinico e freddo.

Grazie all’ultimo turno e all’isolamento una cosa l’aveva capita: l’unica vera ricchezza è il tempo. Aveva un desiderio: riempire l’ufficio ticket di Marina di fiori, ma era tutto chiuso.

— Dannato DPCM! Non mi fermerai.

Si ricordò che la sua vicina di casa, che non lo credeva nemmeno laureato, anzi, pensava che di professione facesse l’anestetista e si dedicasse a eradicare bulbi piliferi (probabilmente avrebbe guadagnato di più), aveva un piccolo giardino con delle meravigliose rose rosse e tulipani da fare invidia agli olandesi. Li avrebbe presi a titolo di risarcimento dopo tanti anni di soprusi psicologici. Il problema era Spritz, che nel caso specifico non si trattava di una bevanda alcolica, ma un volpino nano bianco e cacacazzo! Abbaiava per partito preso. Anche col canuzzo aveva un conto in sospeso. Ogni santo giorno alle sette in punto iniziava ad abbaiare senza motivo, e se durante l’inverno con le imposte chiuse poteva fare quello che voleva, in estate essere svegliati ogni mattina alle sette era davvero una bestemmia. Piergiorgio aveva ovviato in un recente passato con secchiate d’acqua ripetute, che avevano maldisposto l’animale nei suoi riguardi. Come poteva fare a scavalcare il cancelletto e recuperare (a titolo di risarcimento, sia chiaro!) i fiori per la sua amata senza incorrere nell’aggressione del tremendo mastino?

Lo sconforto durò un istante, una rianimatore trova sempre il modo per ovviare agli imprevisti.

Un tozzo di pane intriso di benzodiazepine e dieci minuti di attesa bastarono per farlo cappottare. Piergiorgio controllò che il torace di Spritz si muovesse, non voleva averlo sulla coscienza e non voleva fare la respirazione bocca a bocca a un volpino malefico.

Rasò a zero le rose e i tulipani e corse via. Un fioraio non avrebbe fatto di meglio. Erano le diciassette quando si presentò all’ufficio ticket, profumato e parato come se dovesse andare a cena fuori nel miglior ristorante di pesce della zona. Teneva in mano i fiori come un trofeo.

Marina era lì, seduta al suo posto, raggiante e con un meraviglioso broncio da bimba impertinente. Piergiorgio non desiderava altro che lei.

— Alza gli occhi, alza gli occhi… — mormorò, sperando che le sue parole fossero magiche.

Gli anestesisti hanno i superpoteri e Marina alzò lo sguardo dal pc e lo vide.

I loro occhi si incrociarono e furono fuochi d’artificio.

Lei sorrise e lui ottenne ciò che desiderava per scacciare via il dolore a cui assisteva ogni giorno. Aveva bisogno del suo sorriso, incastonato nel volto dai lineamenti delicati.

Lei uscì di corsa dall’ufficio e si lanciò a baciarlo, fregandosene dei colleghi che la osservavano e di tutti gli altri medici, infermieri e OSS che avrebbero ricamato pettegolezzi sul loro conto.

— Sono per me?

Piergiorgio arrossì. Un anestesista non si emoziona mai, ma il suo sistema neurovegetativo era proprio andato. Marina con il suo sorriso lo aveva rivoltato come Primo Carnera aveva fatto con Jack Sharke nel’33.

— Sono meravigliose.

Piergiorgio non riusciva a spicciare una parola.

In quel momento passò Umberto Desiderio. Il suo sguardo da squalo famelico li osservò. Piergiorgio notò una smorfia sul volto del collega. L’istinto fu di controllare in tasca se avesse o meno il chiodino d’acciaio per la sua missione rimandata.

Ma l’idea morì ancor prima di nascere, perché Desiderio vacillò. Si appoggiò al muro, alzò di nuovo lo sguardo verso Marina e Piergiorgio, poi si piegò sulle gambe e stramazzò al suolo.

— Piergiorgio, aiutalo! — disse Marina.

— Ma sei sicura che sta male?

— Presto, presto!

— Starà fingendo uno dei suoi soliti malori, come fa sempre in sala operatoria!

— Sta male davvero!

— Io non sono in servizio.

— E allora chiama sopra!

— Va bene, mi farò portare l’eparina. Ma dirò di fare piano, siamo in pochi, non vorrei che qualcuno si facesse male correndo!

Piergiorgio ripensò ai fiori. Chissà se la sua vicina aveva anche qualche crisantemo da prestargli…

© Antonino Genovese

# 8 L’amore ai tempi del COVID19

Piergiorgio lasciò che la stanchezza lo cogliesse impreparato. Bevve l’ultimo sorso di birra Messina cristalli di sale e accese una Marlboro. Il campanello squillò senza preavviso, rompendo il silenzio grazie a cui aveva trovato il suo equilibrio mentale, tra il pensiero di Marina e una FFP3.

Voltò lo sguardo verso il campanello. Non poteva aver suonato. Se l’era immaginato. Non aspettava nessun corriere. Non aveva una fidanzata. Sua madre era rinchiusa a Cosenza e non poteva muoversi. E i suoi amici sgattaiolavano come topi dagli appartamenti per fare la spesa una volta a settimana (dichiarata) o portare il cane a fare la pipì ventiquattro volte al giorno.

Accese la Marlboro e di nuovo il campanello squillò. Non era un’illusione. Odorò la sigaretta: era tabacco.

— Chi è? — chiese al citofono.

— Sono Marina.

Che ci faceva sotto casa sua?

Spense la sigaretta. Spazzò via dal divano le bottiglie di birra e le altre cianfrusaglie. Marina era andato a trovarlo in barba a tutti i DPCM, ordinanze, sindaci metropolitani e disposizioni di servizio. Il suo cuore si tuffò in una piscina ricolma di miele. Rassettò in pochi minuti, gettando tutto nella pattumiera. Poi volò in bagno per una spruzzata di Sauvage. Odorò le ascelle: potevano andare! Non aveva tempo per cambiarsi. I passi di Marina sul pianerottolo si facevano sempre più vicini. Prese un respiro profondo e aprì la porta nel momento esatto in cui la donna stava dinanzi a lui. Era fantastica. La mascherina le copriva il naso e la bocca, ma gli occhi brillavano di una luce primaverile.

Piergiorgio restò immobile, imbambolato come quando aveva visto La Venere di Botticelli agli Uffizi di Firenze e non si era mosso per parecchi minuti, incantato da tanta bellezza. Una sensazione che ti paralizza, non riesci a parlare e respiri solo perché è un processo involontario.

— Posso entrare?

— Certo. — Piergiorgio rinsavì, poi si spostò, indicando il piccolo salotto.

— Ti posso offrire qualcosa? — chiese, togliendo l’ultimo numero di Dylan Dog dal divano.

Marina si accomodò con eleganza. Il suo profumo era un uragano. Il cuore di Piergiorgio galoppava, sembrava Furia il cavallo del West. Si ricordò che il frigo era vuoto, ma una bottiglia di Valdobiadene lo salvò in calcio d’angolo.

— Fai tu — disse la donna, mentre lo scrutava.

Piergiorgio stappò la bottiglia e poi disse: — A cosa brindiamo?

— Alle parole che mi hai scritto. Sono bellissime. Sono venuta per dirtelo di persona. Non mi andava di scrivertelo in un sms!

— Marina, io…

Piergiorgio si avvicinò. Gli occhi di lei erano languidi e le labbra, coperte da un rossetto rosso fuoco, umide e sensuali.

— Piergiorgio, io…

E si fici a frittata.

Lui le prese le guance tra le mani e la baciò, e pensò che quello era per lui il primo bacio, come se fino a quel giorno non avesse mai amato. Si perse nelle distese sconfinate del suo corpo, affrontando curve repentine e mozzafiato, guidando con una mano sola, mentre tutt’intorno la casa, il divano e la città stessa scomparivano. Insieme a lei, in quel connubio di corpo e mente, pazzo e sregolato, si sentiva finalmente parte dell’universo.

Pace.

E la primavera era arrivata, puntuale. E aveva scacciato via l’inverno gelido che lo aveva investito.

E chi se fotteva del virus cinese!

Che non era solo sesso lo aveva compreso subito. Sotto l’involucro (meraviglioso) c’era qualcosa che lo attirava ancora di più: un ciriveddu e un cuore.

Da quella sera niente sarebbe stato più come prima. Il cibo non avrebbe avuto lo stesso sapore e persino la luna e le stelle avrebbero brillato in maniera diversa.

Si ritrovò solo a riflettere, mentre iniziava il suo turno di notte. E pensò che si era rincoglionito davvero. Per Marina aveva preso un muro di faccia ed era rimasto schiantato.

Ma poteva mai innamorarsi una come lei di uno come lui?

E soprattutto poteva uno stronzo patentato come lui innamorarsi? Era un cinico e freddo rianimatore. E non era previsto che perdesse la testa per una bionda fausa!

Iniziò il turno di notte con il suo solito rito scaramantico. Un pugno di sale ai quattro angoli del nosocomio, una spruzzata sulla testa e una sulla divisa. Ma sapeva già che sarebbe stata una notte di merda: all’ingresso aveva incontrato Nadia Canotto, l’ostetrica con le tette che parevano un salvagente. Per mantenerle in forma ci voleva il fisico e, nonostante i cinquant’anni, pareva le tenesse ancora su con reggiseni a forma di balcone in cemento armato. Ma aldilà del seno prosperoso, Nadia aveva un difetto: portava Sfiga. Ma non sfiga, bensì Sfiga con la s maiuscola. E non era stato ancora forgiato un amuleto che riuscisse a contrastare la sua potenza.

— Buonanotte, dottore!

Buonanotte, un cazzo! Si era lasciato andare in gesti scaramantici di ogni tipo, sale in abbondanza, aveva messo in tasca un corno rosso, aveva accarezzato il ferro di cavallo (eredità di nonno Turi), che teneva nell’armadietto per i casi disperati. Niente! Non c’era verso. Quando Nadia Canotto salutava… la notte era persa!

A fargli compagnia in quella serata di sventure c’era Pippo Bibita: alto, secco, asciutto. La capigliatura a casco di banane era tenuta in sesto da una fitta impalcatura costruita con gel e altre diavolerie cosmetiche.

— Piergiorgio, guarda che ti faccio vedere! — disse, mostrandogli il cellulare.

— Stiamo a un metro.

— E dai… questa è la mia ultima conquista: si chiama Rosalinda.

— Una mora?

Pippo annuì.

— Ma non ti piacevano le rosse?

— Guarda, ti dirò. Ho iniziato con le bionde, ma sai… sopra erano bionde e sotto… non sempre, ho continuato con le rosse, ma sai… troppe lentiggini e poi, sei rianimatore pure tu, i “rossi” hanno sempre problemi sotto anestesia.

— E ora sei passato alle more?

Pippo Bibita annuì.

— Da quando c’è il coronavirus dico a tutte che sono rianimatore e… indovina? Me la vogliono dare. Io dico: no, no, no… e loro invece insistono… non sai che fatica!

— Immagino.

— Alla mia nuova fiamma ho regalato l’i-phone 11 pro.

— Già che c’eri e hai tutti sti soldi da buttare per una storia che durerà non più di un mese potevi anche regalarle l’11 pro max!

— E qua ti sbagli, — disse Pippo con uno scintillio febbrile negli occhi azzurri, — l’i-phone è 11 pro… il max ce l’ho io in mezzo alle gambe!

Poi si lasciò andare in una risata fragorosa.

— Indossa bene la mascherina, non vedi che ti cade?

— Ce l’ho da sei giorni, la farmacia le dà col contagocce, — rispose Pippo, tornato serio.

Piergiorgio pensava a Marina, non voleva togliersi di dosso la sua fragranza.

Mentre l’orologio in cucina segnava mezzanotte e l’idea di averla fatta franca alla buonanotte di Nadia Canotto prendeva forma nella sua mente, squillò il telefono. Il taglio cesareo, che in tempi di normalità era considerato una grande rottura di scatole, quella notte fu una benedizione. E anche il taglio cesareo successivo non fu visto in maniera ostile. Un cesareo tira l’altro come le ciliegie. Per fortuna non c’era di turno Aida Sguaitamatti!

La mattina seguente Piergiorgio si sentiva mezzo miracolato. Aveva persino riposato due ore.

Ma i quattordici giorni di isolamento del primario erano terminati. Quando vide Muccalapuni entrare in cucina con la sua faccia da pugile, il corpo tozzo, il collo assente e l’orrendo riporto di capelli tinti con un colore innaturale che tendeva all’arancio, comprese in quel momento che la buonanotte di Nadia Canotto non lasciava scampo.

— Dottore Morfina, dove va? — disse, con la voce da fumatore incallito.

— Smonto.

— Chiama Gargamella, ho deciso di rivedere il percorso COVID.

— Ma se lo avete fatto insieme telefonicamente.

— Sì, ma vedi? Non ho niente da fare oggi, e quindi rompo le palle.

Gargamella entrò, trafelato. Occhiali, mascherina e cappellino perfettamente indossati. Ma il telefono di Muccalapuni squillò con l’inconfondibile colonna sonora di Nove settimane e mezzo. Era l’on. Curcuruto.

— Come dici?

— …

— Non ci sono ventilatori sul mercato?

— …

— Non ci sono nemmeno soldi?

— …

— Alla stampa devi dire che siamo pronti, tranquillo ti copro io. Il Sisalvichipuò è pronto!

— …

— Mi serve personale? No, assolutamente no. Ho quattro ragazzi volenterosi che sono ben felici di prenderla nel didietro.

— …

Muccalapuni rise.

— … (risata)

— Non consumeremo lubrificanti, stai sereno!

— … (risata)

— Ne approfitto per chiederti una cosa? La mia nomina a capo dipartimento… anticipiamola! Che ne pensi?

— …

— Grazie grazie grazie.

Muccalapuni chiuse la telefonata con un sorriso che mise in evidenza gli effetti della nicotina sul suo apparato dentario e gengivale.

— Allora, Caposala Gargamella!

— Primario, mi dica. Noi abbiamo sistemato alla meglio seguendo le sue indicazioni e quelle del facente funzione.

— Sei stato bravo, ma dobbiamo rifare tutto.

— Tutto?

— Tutto!

Piergiorgio si intromise: — Ma guardi che stiamo rispettando le linee guida, compatibilmente con la struttura.

— Qualcuno ti ha detto di parlare, Morfina?

— No, ma…

— Ma comando io! — Muccalapuni sbatté il pungo sul ripiano della cucina.

Piergiorgio e Gargamella si lanciarono un’occhiata rassegnata.

— Modificheremo due o tre cose. Faremo foto, video, dichiarazioni. Gargamella, chiama l’ufficio stampa. Noi siamo pronti per l’emergenza COVID.

— Sì, primario. Glielo dica all’onorevole.

— Cosa?

— Che non abbiamo nemmeno gli occhi per piangere!

© Antonino Genovese

#7 Evelyne

Piergiorgio era dubbioso. Era arrivato il momento di dichiararsi apertamente? Una poesia poteva bastare per conquistare il cuore di Marina? Le bionde fause dai capelli lunghi, le cosce affusolate e gli occhi ambrati erano le più difficili da conquistare: nonno Turi glielo diceva sempre.

Era meglio aspettare che l’isolamento terminasse per riempirla con una vagonata di fiori? L’incertezza lo perseguitava, mentre consumava una Marlboro dopo l’altra, rinchiuso tra le mura del suo appartamento da single. Bastava un centimetro un po’ più in là o un po’ più in qua per mandare tutto all’aria.

Aprì il frigo: era vuoto. Non faceva la spesa nemmeno al tempo  del coronavirus. Mezzo limone ammuffito e puzzolente era l’unico esemplare superstite della pandemia. Per un istante la tachicardia investì il torace di Piergiorgio, ma si rincuorò alla vista dell’unica donna che non lo aveva mai deluso: Birra Messina ai cristalli di sale. Le dodici bottiglie allineate gli fecero passare la crisi ansiosa che stava iniziando a montargli dentro.

Stappò la bionda siciliana e ricopiò con la miglior calligrafia possibile i versi di Edoardo. Erano profondi. Ma da dove venivano quei pensieri? L’ultima volta che il suo amico si era espresso senza dire una parolaccia o regalare frasi maliziose a doppio senso era stato il giorno della prima comunione. Poi si era rivelato per ciò che era realmente: un depravato. Adesso se ne usciva con una poesia alla Pablo Neruda. Niente niente che si era innamorato anche lui? Di chi? Forse un’asiatica?

Piergiorgio ragionava. Aveva bisogno di un piano per conquistare Marina. Non poteva presentarsi sotto casa sua e mettersi a recitare la poesia. Avrebbe balbettato al primo rigo. E poi si sarebbe sentito in imbarazzo. Per non parlare delle sentinelle (Santa Maria Goretti ed Elizabeth II di Gluecity) che gli avrebbero fatto i raggi X. Scosse la testa. Non era fattibile.

Tracannò l’ultimo sorso di birra, mentre i suoi neuroni correvano intorno alla soluzione. Gli sarebbe servita la sua amica del cuore.

Il problema principale era rintracciare Evelyn, la romanaccia. Assegnata a un ufficio della direzione sanitaria di presidio, quindi imboscata, sarebbe stata un’ardua impresa poterci parlare. Tra una missione, una 104, un permesso retribuito e un giorno di ferie, rischiava di incontrarla tra non meno di trenta giorni. Lo sconforto lo colse impreparato, poi lo smartphone squillò. Era l’oroscopo di Nostradamus, che recitava così: “La fortuna vi accompagna in famiglia con davvero bei momenti da vivere insieme ai vostri figli o parenti stretti come nonni o zii, cugini, ecc…

Minchiate! Era single, isolato, mezzo depresso e con due mongolfiere in mezzo alle gambe che presto gli avrebbero fatto prendere il volo.

Continuò a leggere: “Il fato può portarvi qualcosa di buono soltanto se avete seminato in passato e quindi si tratterà comunque di una fortuna meritata piuttosto che caduta dal cielo. Ottime giornate quelle di venerdì e sabato per provare a giocare ad una lotteria ma ricordatevi di giocare il minimo indispensabile.” 

Primo: la lotteria era stata bloccata dal governo. Secondo: venerdì era troppo lontano e non pensava che il coronavurs gli avrebbe lasciato scampo. Terzo: che cosa aveva mai seminato di così importante nella sua vita? Non aveva mai nemmeno avuto un orto! L’oroscopo era un’emerita stupidaggine, creata per i creduloni come lui.

Riprese a fumare. Guardò l’ora: il suo turno di guardia iniziava tra meno di mezz’ora. Si vestì di tutto punto e si scapicollò in ospedale. Aveva lasciato la sua utilitaria con una ruota in un’aiuola. Le ferie erano state revocate a tutti e quindi trovare un parcheggio al Sisalvichipuò Hospital era diventato più difficile che vincere la lotteria Italia.

Tutti i dipendenti del nosocomio erano pervasi dalla folle paura di infettarsi. Non si parlava, non si scherzava e si comunicava a gesti.

Piergiorgio era imbracato al punto che sembrava un Talebano e difficilmente riconosceva i colleghi di lavoro tra mascherine e cuffiette.

Il Sisalvichipuò aveva subito la mutazione tanto temuta, dettata dalla sempre più diffusa patologia del nuovo millennio: il cacazzo.

Sei tenuta a damme la mia mascherina, capito? Nun mene frega un cazzo se non ne avete! Io nun ce vengo a lavorà se non mi date i dippiì!

Il volto di Piergiorgio si illuminò. Non riusciva a vedere Evelyne, ma sentiva la sua voce. Era lei: la grandissima scassapagghiaro e attaccabrighe romana!

Accelerò il passo. Doveva incrociarla. Voltò l’angolo e se la ritrovò davanti. Stava litigando con Gianna Apnea, che utilizzava i suoi modi garbati per abbassare i toni della discussione.

Direttore, nun me ne frega niente di niente. Echecazzo!

— Ciao — s’intromise Piergiorgio.

— Dottore Morfina, per favore, non si metta in mezzo anche lei, che già stamattina in questa direzione facciamo scintille.

Che vuoi pure te? — Evelyne era un toro nell’arena pronto a caricare.

— Non ho potuto fare a meno di ascoltare e posso risolvere io il problema della signora Evelyne — precisò Piergiorgio, rivolgendosi al direttore sanitario, prima di ruotare lo sguardo verso la ragazza.

Signora sarà tu sorella.

— Dottore Morfina, se ha la soluzione, se la veda lei. — Gianna Apnea voltò le spalle e si allontanò, mettendo in mostra il suo lato b, che non aveva niente a che vedere con quello di Marina. Il fondoschiena del direttore sanitario, più che parlare, assomigliava a una televisione vecchio modello con cinescopio!

Allora, dimme come mi puoi aiutà, a me serve una mascherina, sennò giuro che a quella le tiro i capelli e glieli faccio magnà.

Piergiorgio ripensò all’oroscopo. Ecco la sua semina: avrebbe procurato una mascherina a Elevelyne.

— Te la do io, conosco il nascondiglio segreto di Gargamella.

Annamo, a chi stamo aspettanno?

Piergiorgio ed Evelyne, una moretta dall’aria incazzusa e l’occhio sveglio, raggiunsero la stanza del caposala del reparto di Rianimazione.

Ce vedono tutti. Sei proprio un cojone!

— Statti muta almeno un secondo.

Nun è che sei juventino? A me i juventini me stanno sur caz…

— Ti ho detto stai zitta, sennò ci fai sgamare!

Ma sei juventino?

Piergiorgio la ignorò. Era juventino fin dentro il midollo. Nel suo cuore c’era tatuata una “J” e se si fosse tolto la camicia il tatuaggio della Vecchia Signora sarebbe scintillato, ma evitò di rispondere. Controllò il corridoio: era deserto. In cucina intravide la sagoma di Pippo Bibita, giovane anestesista neo-assunto, bello e dannato. Infermiere, ostetriche e dottoresse avrebbero fatto a cazzotti per lui. Si vociferava che fosse ben dotato. Evitò di incrociarlo per non sorbirsi il lungo elenco delle sue innumerevoli conquiste.

Piergiorgio si muoveva rasente al muro e si rivedeva in un film di 007. Per un attimo si sentì Sean Connery, ma poi si voltò, dietro di lui c’era Evelyne. Si rese conto che non era Ursula Andress e che non si trovavano su una meravigliosa spiaggia, ma bensì in un reparto di Rianimazione ai tempi del COVID19.

Raggiunsero la stanza di Gargamella. Si fiondarono dentro. Con maestria Piergiorgio aprì il vecchio e sconquassato armadietto del caposala e con somma soddisfazione trovò un pacco intonso e sigillato di mascherine chirurgiche. Ne afferrò due, poi scappò via, seguito dalla romanaccia.

Grazie, Pergiò, sei stato n’amico. Hai rischiato per me e questo nun lo dimenticherò.

— Figurati.

Se posso fà qualcosa pe’ te, sai dove trovamme.

Evelyne gli voltò le spalle per tornare in direzione a sbrogliare carte, ma dopo la semina, c’è sempre il raccolto. Lo diceva l’oroscopo.

— Effettivamente volevo chiederti una cosa — disse Piergiorgio.

Dimme pure. — La donna gli piantò addosso i suoi occhi picei.

— Sei la miglior amica di Marina?

Evelyne annuì.

— Ho bisogno che le fai avere questa. — Piergiorgio le porse una busta.

La mora la prese e la rigirò tra le mani. La mise in controluce cercando di scorgerne il contenuto — Che cos’è? — chiese.

— Una cosa che vorrei leggesse Marina.

Perché nun poi dargliela te?

— Insomma… è personale… intima…

Me sta a salì la glicemia. Nun me dì che è una lettera d’amore?

Piergiorgio alzò le spalle e fece segno che ci aveva quasi azzeccato.

Preparame l’insulina. Sarà mica ‘na poesia?

Evelyne si diede una manata in fronte.

Se ci tieni gliela do oggi stesso, ma nun te voglio illudè, l’amica mia è cotta, ha la testa tra le nuvole, gli occhi sognanti, il cuore nello zucchero…

— Non ti ha parlato di me? — chiese Piergiorgio.

Nun me ha detto niente di niente. E appena me dice che s’è ‘nnamorata, glie spacco la capoccia!

— Ma scusa che hai contro l’amore? — Piergiorgio proprio non capiva.

Voi uomini siete tutti ‘na massa di stronzi. Ma te voglio aiutà, oggi stesso le darò la tu’ busta.

— Grazie.

Nun c’è de che. Ma te posso chiedè io n’altra cosa?

— Certo.

Me procuri una FFP3?

© Antonino Genovese

#3 Aida Sguaitamatti e l’urgenza programmata in tempo di coronavirus

Il conoravirus avrebbe causato molte vittime, di questo ormai Piergiorgio ne era certo. Ma al di là degli infetti e delle polmoniti intrattabili, molti sarebbero finiti sotto le grinfie dei becchini per una patologia tanto diffusa quanto misconosciuta: il cacazzo.

Anche Piergiorgio se la faceva sotto dalla paura. Non solo per quella di infettarsi e di finire con un tubo in gola a causa delle venti (dichiarate) sigarette al giorno, ma soprattutto lo inquietava il terrore di non potersi recare da Nonna Veronica, che lo riempiva di prelibatezze. Il freezer già iniziava a svuotarsi e, se l’isolamento continuava, sarebbe finita a mozzarella e scatolette. Altro che parmigiana di melenzane. I suoi addominali erano in pericolo. Ma meditava un piano b: nonna Veronica poteva tranquillamente lasciare i manicaretti da congelare nell’ascensore, evitando di correre il rischio di infettarsi. Senza la sua pancia da rianimatore non si sentiva se stesso. Avrebbe fatto questo sacrificio per tutelare l’immagine di tutta la categoria. Si ripromise di chiamarla nel momento in cui i viveri fossero davvero ridotti all’osso. Meglio non rischiare la salute della nonna. Si sarebbe rimesso in carreggiata una volta fronteggiata la pandemia.

Piergiorgio, come ogni sacrosanto giorno, varcò la soglia del Sisalvichipuò Hospital, ma quella mattina trovò una bella novità: nella stanzetta del timbro si entrava uno alla volta e bisognava mantenere un metro di distanza gli uni con gli altri. Dopo dieci minuti di attesa sfoderò il cartellino e iniziò ufficialmente il turno sotto gli occhi della dottoressa Gianna Apnea, il direttore sanitario di presidio fresca di nomina, premiata per le sue grandi qualità… sotto la scrivania dell’On. Curcuruto prima e dell’assessore regionale alla sanità dopo. Senza considerare le male lingue che urlavano a gran voce un suo passaggio sotto lo scrittoio (piccolo, ma comodo) del direttore generale. La dottoressa Apnea, mascherina sotto il naso, occhialino da professoressa e capello fresco di piega (con le parrucchiere chiuse Piergiorgio non si capacitava di cotanta ostentata perfezione) vigilava sul rispetto della distanza di sicurezza con un bastone lungo un metro.

— Dottore Morfina, dov’è la sua mascherina? Perché ne è sprovvisto?

La voce sgradevole lo riportò alla realtà, trascinandolo via dal sogno che stava facendo: la tavola cunzata a casa di Nonna Veronica.

— Direttore, buongiorno. Non credo che il mio reparto sia fornito di mascherine in abbondanza. Se ne troverò una, la indosserò.

— Oggi sono arrivate ben cinquanta mascherine. Non si lamenti e rispetti le regole.

Piergiorgio annuì. Non aveva voglia di iniziare il turno polemizzando.

Si voltò e squadrò la dottoressa Apnea: non si sarebbe fatto sfiorare nemmeno con un dito, né sotto, ma tantomeno sopra la scrivania.

Arrivato alla fine del corridoio, anziché continuare dritto verso la scala che lo avrebbe condotto in Rianimazione, svoltò a destra per passare dinanzi all’ufficio ticket. Marina era lì, seduta alla sua postazione. La osservava. Era bella. Una bionda (fausa) con occhi da cerbiatta. Non riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. La donna era impegnata a discutere con una paziente gravida che doveva fare una visita in intramoenia con la sua collega ginecologa Aida Sguaitamatti, ricercatissima dalle pazienti, ma da evitare come la peste per il suo scarso appeal con i libri universitari: non li aveva mai aperti.

Quando Marina alzò gli occhi dalle scartoffie i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri. Piergiorgio sentì che le gambe gli stavano crollando. Quando lei gli regalò un sorriso, lui alzò la mano destra e la salutò. Stava per tornare indietro e imboccare il corridoio per raggiungere il suo reparto, ma si sentì chiamare. — Dottore, dottore.

Piergiorgio si voltò. Era lei. Ebbe il dubbio che si stesse riferendo proprio a lui. Un anestesista che veniva chiamato “dottore” era cosa insolita. Ma i tempi stavano cambiando.

— Sì… sì… sono io.

Piergiorgio, cazzuto, cinico e stronzo rianimatore, iniziò a tentennare e si meravigliò di se stesso: non era da lui.

— Dottore Morfina, lei è un anestesista?

— Sono rianimatore, sì.

Piergiorgio non apprezzava essere etichettato come quello che addormentava e svegliava i pazienti. Il suo lavoro era ben altro. Definirsi rianimatore lo faceva sentire più figo, specie in tempo di coronavirus.

— Volevo chiederle una cortesia.

— Certo, ma a una condizione. Non sono poi così vecchio. Diamoci del tu e mi sentirò meno in imbarazzo.

— Certo, certo — disse Marina. Le sue guance si imporporarono.

— Come ti posso aiutare?

Marina si avvicinò al suo orecchio e Piergiorgio approfittò della vicinanza per assaporare il suo profumo. Ne fu subito certo: si trattava di Bottega Veneta. Il suo olfatto non mentiva mai. Poteva riconoscere ogni tipo di fragranza.

— Puoi procurarmi una mascherina FFP3?

Piergiorgio si sentì preso in contropiede. Ipotizzava altro: una cena in un locale romantico (post isolamento), un viaggio all’Allianz Stadium a vedere la Juventus (post riapertura campionati), una passeggiata in riva al mare (le spiagge il premier Conte le aveva chiuse o no?).

— Veramente… non penso che ne abbiamo… forse una… o due…

Il volto angelico di Marina si rabbuiò. Un velo di delusione le adombrò lo sguardo.

— Ma non ti preoccupare. Te ne procurerò una. Per me niente è impossibile.

Il sorriso carico di fiducia della donna ristabilì il suo equilibrio con l’universo.

— Grazie, Piergiorgio. Sapevo di poter contare su di te.

Avrebbe voluto baciarla, ma in tempo di isolamento non era il caso che si lasciasse andare in slanci d’affetto. Mentre Marina tornava alla sua postazione di lavoro Piergiorgio non poté fare a meno di radiografare il fondoschiena parlante su cui sperava di far morire, un giorno non troppo remoto, la sua mano.

La soddisfazione di averla resa felice per la prima volta durò il tempo delle scale, perché Gargamella sbraitava al telefono con la farmacista. I DPI sarebbero rimasti un sogno.

— Caposala, con che cosa ci proteggeremo dall’infezione? Arriveranno molti casi. Se raggiungiamo solo il 10% dei numeri della Lombardia siamo fottuti, lo sai?

— Ti rispondo in italiano così mi capisci: con una beata minchia!

— A me serve una FFP3.

— E per fare che?

— Fatti miei.

— Non ce n’è! — Gargamella non reggeva più lo stress. Ad ogni richiesta scattava come una molla.

— Ma possono lasciarci morire in questo modo?

— Ti ricordo che durante la seconda guerra mondiale ci hanno mandato in Russia con le scarpe di cartone. Ti meravigli se non abbiamo tute in Tyvek e mascherine FFP3?

— A me ne non me frega niente delle tute, mi serve una mascherina.

— Compratela in ferramenta!

Forse con Marina non avrebbe fatto cattiva figura. L’avrebbe conquistata. In tempo di coronavirus una FFP3 è più accattivante di un mazzo di rose rosse. Si allontanò senza degnare Gargamella di uno sguardo e si fiondò nella stanza del medico di guardia, lontano da orecchie indiscrete. Da quel guaio poteva tirarlo fuori solo il suo amico scrittore Edoardo. Compose il numero. Al terzo squillo rispose.

— Amico mio.

— Stai disturbando la mia ispirazione… — il tono sprezzante di Edoardo voleva significare solo una cosa: era in fase creativa.

— Scusa, ma è una cosa vitale.

— Sto scrivendo una scena importante del sequel del mio romanzo. Questi cinesi non mi avranno mai!

— Smettila con queste cazzate delle teorie complottiste. Nessuno vuole bloccare il tuo estro creativo. A proposito, come hai deciso di intitolare il secondo romanzo della tua saga?

— L’asiatica sulla scrivania.

— Originale.

— È un romanzo erotico a sfondo sociale. Ha alla base la lotta della società contro il vilipendio dei virus. Ma tu non puoi capire, del resto infili aghi nella schiena della gente e tubi tra le corde vocali.

— Ho bisogno di un favore. — Piergiorgio andrò dritto al sodo.

— Sono tuo amico, anche se mi hai tradito non leggendo il mio romanzo.

— Vai in ferramenta e compra una FFP3. — Piergiorgio ignorò l’offesa dell’amico.

— Una mascherina?

— Sì. Ma bada bene che sia FFP3.

— Ok.

— Fammi sapere se ne trovi. Vanno a ruba. In ospedale non ne abbiamo e la farmacia non sappiamo se ne fornisce.

— Consideralo fatto. In casa ne ho sei confezioni da cento.

— Cosa?

I quattro peli castani sul cranio di Piergiorgio si drizzarono.

— Con questo romanzo sfiderò i potenti del mondo e metterò in discussione le loro certezze. Ho pensato che dovevo proteggermi dai loro attacchi. Dopo il COVID19 ci sarà il COVID20. Devo essere pronto.

— Hai 600 mascherine a casa?

Piergiorgio immaginò il ghigno di soddisfazione dell’amico all’altro capo del telefono.

— Mettimene una da parte. Non fare lo stronzo.

— Ti aspetto dopo il lavoro, ma ora fammi lavorare. Ho molto da fare.

Piergiorgio stava per liberare il carattere calabrese fumantino, ma la chiamata per un cesareo di urgenza lo riportò al dovere.

Al Sisalvichipuò Hospital i tagli cesarei erano come le ciliegie: uno tirava l’altro. E per un anestesista di provincia che si rispetti erano pane quotidiano. Non ebbe il tempo di riagganciare la chiamata proveniente dal reparto di ostetricia che sentì urla provenienti dal complesso operatorio.

— Un cesareo. Un ceareoooooooooo.

Era Aida Sguaitamatti.

— Ma è urgente-urgente? C’è bradicardia? Sanguina?

— No.

— Ma che urgenza è? — chiese Piergiorgio.

La voce di gallina di Aida riempì l’antisala.

— Il cesareo è urgente. Vedi? Ti ho fatto il foglio — asserì la ginecologa, sbattendo la cartella sulla scrivania dell’accettazione. — E sul cesareo devi stare zitto. Decido io. Tu lo sai chi sono io?

— Una gallina che urla! — rispose Piergiorgio.

— Come ti permetti.

— Senti, io ti ho solo detto che la situazione non è così urgente da fare sto casino. Siamo in tempo di coronavirus e la dovreste smettere con le finte urgenze programmate dal giorno prima!

— La signora è già pronta, digiuna da ieri sera — affermò Aida Sguaitamatti, trotterellando.

— Ah certo! Hai visto che mi prendi in giro? È programmata e me la passi d’urgenza!

Piergiorgio girò i tacchi e si diresse verso l’accettazione. In tutti gli ospedali d’Italia l’anestesista era considerato lo zerbino. Ma i tempi stavano cambiando. Se si fosse trovato a decidere chi intubare o no per carenza di posti, avrebbe preferito la dottoressa Apnea alla Sguaitamatti. E con questo pensiero aveva esplicitato quanta stima nutriva nella ginecologa.

— Sbrigati! Non perdere tempo. — Aida continuava a urlare.

— Devo visitarla, far firmare il consenso. Stai calma e non urlare.

— Tu, dico a te! — La ginecologa si rivolse all’infermiera.  — Il tavolo è pronto? Hai avvisato il Nido?

Piergiorgio rideva di sottecchi. La verità era una: Aida Sguaitamatti sarebbe stata una vittima, ma il coronavirus le sarebbe stato lontano, acida per com’era. A lei ci avrebbe pensato il ben più temibile cacazzo!

© Antonino Genovese

#1 Fino a trenta giorni fa

Lamelle di luce fastidiose iniziavano a scassargli la minchia, ma la sveglia non suonava. L’i-phone stazionava silenzioso e immobile sul comodino, come un alunno che conosce bene l’ira dell’insegnante per un movimento sbagliato durante la lezione. Si illuminava per i continui sms, notifiche e mail. Ma muto era e muto restava. Sapeva già che rischiava l’exitus. Era già traballante con uno schermo spaccato a metà. Se avesse suonato un minuto prima del previsto il suo destino era segnato.

O era arrivata la primavera in anticipo, o qualcuno dall’alto (e non era la ninfomane del piano di sopra) aveva deciso di farlo alzare con la luna storta, oppure le stagioni si erano sovvertite. Ultima teoria era la forza gravitazionale. Si era spostato durante il sonno dalla sua classica posizione a faccia in giù quel tanto che bastava affinché la luce stuzzicasse le sue palpebre.

Fatto sta che la lamella di luce lo aveva colpito esattamente nel suo punto debole e aveva preso a spallate Morfeo, che ancora lo cullava.

Guardò il cellulare con un occhio ancora impastato dal sonno e l’altro invece sveglio e pimpante. Il gruppo degli anestesisti-rianimatori “Al peggio non c’è mai fine” del Sisalvichipuò Hospital segnava settantadue sms.

— Minchia — disse. Stropicciò l’occhio ancora chiuso, poi cercò il pacchetto di Marlboro e ne accese una, seduto in mezzo al letto.

Iniziò a spulciare gli sms.

—Minchia! — ripeté, allungando la “a” finale.

Il premier Conte si era svegliato. Era il 5 marzo e il virus cinese che impestava il nord era davvero pericoloso e il consiglio dei ministri aveva deciso di mettere in stand-by l’Italia.

— Ve ne siete accorti solo ora, eh?

Si alzò, dopo aver scacciato le coperte. Mise i piedi a terra e non trovò le pantofole. La bocca era impastata per la bevuta colossale della sera prima. Con il suo amico Edoardo, scrittore e mantenuto, si erano scolati l’intero DOP. Un vuoto di memoria non gli consentì di collegare l’ultimo sorso di Vodka con il suo ingresso a casa. La testa sfrigolava come una vecchia locomotiva. Passò in cucina e ingollò un antiinfiamamtorio. La doccia era l’unico rimedio per darsi una svegliata prima del turno di lavoro. Appena il getto dell’acqua calda lo investì la sveglia iniziò a squillare.

— Coronavirus del cazzo, mi revocheranno le ferie!

Già, le ferie. Le aspettava dall’estate, quando era stato obbligato a consumare i giorni di allontanamento anestesiologico. Trattava da mesi con il suo primario per avere sette giorni di riposo e, nonostante il suo cartellino segnasse centoventidue giorni arretrati, sembrava quasi che gli facesse una cortesia.

— C’è carenza, dobbiamo garantire i LEA, ne vale della salute dei cittadini — gli ripeteva il suo primario, il dott. Muccalapuni, basso, tracagnotto e malato cronico di ipertrofia prostatica, culo e camicia col direttore sanitario aziendale e grande leccaculo dell’On Tony Curcuruto, esponente di spicco di Forza Calabria.

L’acqua lo riportò alla realtà e alla pandemia che presto avrebbe colpito anche il suo piccolo ospedale in provincia di Vibo Valentia, il Sisalvichipuò Hospital, incastonato tra Serra San Bruno e le spiagge di Pizzo.

— I LEA… la salute… la MINCHIA! Alla prima virgola fuori posto mi denunciano tutti: pazienti infami! — disse a voce alta, guardandosi allo specchio.

Si asciugò quei quattro peli che gli erano rimasti sulla testa, in compenso una barba folta e nera lo rendeva stronzo e impossibile.

“Anestesisti in grande affanno” era il titolo di uno dei numerosi articoli che girava sui social network.

— Fino a ieri eravamo gli specialisti più sfigati e adesso siamo i più gettonati dello stivale. Nemmeno medici eravamo considerati… ma andate a fanculo!

Accese la seconda Marlboro, si accomodò sul water e continuò a spulciare lo smartphone.

— Fino a trenta giorni fa non conoscevo nemmeno il mio nome. Adesso sono il più figo dell’ospedale. Allora mi presento: sono Piergiorgio Morfina e, indovinate? Sono un Anestesista-Rianiamatore!

©Antonino Genovese

LA PROMESSA DEL MARESCIALLO, un racconto di Antonino Genovese

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