#1 Fino a trenta giorni fa

Lamelle di luce fastidiose iniziavano a scassargli la minchia, ma la sveglia non suonava. L’i-phone stazionava silenzioso e immobile sul comodino, come un alunno che conosce bene l’ira dell’insegnante per un movimento sbagliato durante la lezione. Si illuminava per i continui sms, notifiche e mail. Ma muto era e muto restava. Sapeva già che rischiava l’exitus. Era già traballante con uno schermo spaccato a metà. Se avesse suonato un minuto prima del previsto il suo destino era segnato.

O era arrivata la primavera in anticipo, o qualcuno dall’alto (e non era la ninfomane del piano di sopra) aveva deciso di farlo alzare con la luna storta, oppure le stagioni si erano sovvertite. Ultima teoria era la forza gravitazionale. Si era spostato durante il sonno dalla sua classica posizione a faccia in giù quel tanto che bastava affinché la luce stuzzicasse le sue palpebre.

Fatto sta che la lamella di luce lo aveva colpito esattamente nel suo punto debole e aveva preso a spallate Morfeo, che ancora lo cullava.

Guardò il cellulare con un occhio ancora impastato dal sonno e l’altro invece sveglio e pimpante. Il gruppo degli anestesisti-rianimatori “Al peggio non c’è mai fine” del Sisalvichipuò Hospital segnava settantadue sms.

— Minchia — disse. Stropicciò l’occhio ancora chiuso, poi cercò il pacchetto di Marlboro e ne accese una, seduto in mezzo al letto.

Iniziò a spulciare gli sms.

—Minchia! — ripeté, allungando la “a” finale.

Il premier Conte si era svegliato. Era il 5 marzo e il virus cinese che impestava il nord era davvero pericoloso e il consiglio dei ministri aveva deciso di mettere in stand-by l’Italia.

— Ve ne siete accorti solo ora, eh?

Si alzò, dopo aver scacciato le coperte. Mise i piedi a terra e non trovò le pantofole. La bocca era impastata per la bevuta colossale della sera prima. Con il suo amico Edoardo, scrittore e mantenuto, si erano scolati l’intero DOP. Un vuoto di memoria non gli consentì di collegare l’ultimo sorso di Vodka con il suo ingresso a casa. La testa sfrigolava come una vecchia locomotiva. Passò in cucina e ingollò un antiinfiamamtorio. La doccia era l’unico rimedio per darsi una svegliata prima del turno di lavoro. Appena il getto dell’acqua calda lo investì la sveglia iniziò a squillare.

— Coronavirus del cazzo, mi revocheranno le ferie!

Già, le ferie. Le aspettava dall’estate, quando era stato obbligato a consumare i giorni di allontanamento anestesiologico. Trattava da mesi con il suo primario per avere sette giorni di riposo e, nonostante il suo cartellino segnasse centoventidue giorni arretrati, sembrava quasi che gli facesse una cortesia.

— C’è carenza, dobbiamo garantire i LEA, ne vale della salute dei cittadini — gli ripeteva il suo primario, il dott. Muccalapuni, basso, tracagnotto e malato cronico di ipertrofia prostatica, culo e camicia col direttore sanitario aziendale e grande leccaculo dell’On Tony Curcuruto, esponente di spicco di Forza Calabria.

L’acqua lo riportò alla realtà e alla pandemia che presto avrebbe colpito anche il suo piccolo ospedale in provincia di Vibo Valentia, il Sisalvichipuò Hospital, incastonato tra Serra San Bruno e le spiagge di Pizzo.

— I LEA… la salute… la MINCHIA! Alla prima virgola fuori posto mi denunciano tutti: pazienti infami! — disse a voce alta, guardandosi allo specchio.

Si asciugò quei quattro peli che gli erano rimasti sulla testa, in compenso una barba folta e nera lo rendeva stronzo e impossibile.

“Anestesisti in grande affanno” era il titolo di uno dei numerosi articoli che girava sui social network.

— Fino a ieri eravamo gli specialisti più sfigati e adesso siamo i più gettonati dello stivale. Nemmeno medici eravamo considerati… ma andate a fanculo!

Accese la seconda Marlboro, si accomodò sul water e continuò a spulciare lo smartphone.

— Fino a trenta giorni fa non conoscevo nemmeno il mio nome. Adesso sono il più figo dell’ospedale. Allora mi presento: sono Piergiorgio Morfina e, indovinate? Sono un Anestesista-Rianiamatore!

©Antonino Genovese

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