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#10 E’ primavera, Piergiorgio

Quando si arriva in fondo a una storia l’emozione è forte per ciò che si è provato nel percorso che ha condotto alla fine. Questo racconto a puntate mi ha permesso di scavare dentro il mio animo e di sfogare ansie e preoccupazioni, ma anche di divertirmi insieme a Piergiorgio ed Edoardo. Molti di voi mi chiedono chi sia Marina, o Gargamella, o gli altri personaggi di questa storia. Preciso che è tutto frutto di fantasia, che non esiste nessuno di loro o forse sono tutti reali! Di vero ci sono i sentimenti che hanno condotto alla fine, che probabilmente è solo l’inizio.

Dedico il capitolo 10 a Clara, nata il 7 aprile 2020 alle ore 21.48 e ai miei amici Pietro e Teresa. Grazie, Clara, per avermi fatto superare le mie paure.

Se non fosse stato per l’improvviso rialzo delle temperature, Piergiorgio non si sarebbe accorto che la primavera era arrivata.

Il mondo girava senza percepire ciò che stava accadendo. Era il sette aprile e sembrava un giorno come un altro. Trascorrevano tutti uguali, inesorabili. La vita era cambiata. Molte aziende erano sull’orlo della bancarotta. La popolazione soffriva e aveva fame. E non c’è niente di più pericoloso di un popolo affamato. Al sud una buona fetta dei cittadini viveva di lavori in nero, retribuito a giornata, ma le restrizioni dello Stato non consentivano nemmeno di uscire di casa, figurarsi andare a lavorare.

Piergiorgio attraversò il marciapiede, quando una volante della Polizia di Stato lo accostò.

— Buongiorno. — Il poliziotto abbassò il finestrino e lo squadrò dai capelli (pochi rimasti) ai piedi. Era un cinquantino con le spalle di Sylvester Stallone, i bicipiti di Arnlod Schwarzenegger e la pancia di Bud Spencer.

— Buongiorno.

Dove sta andando? — chiese, con in volto stampato il ghigno di chi ha beccato un altro trasgressore.

— In ospedale.

— Se ha la febbre non può.

— Non ho la febbre, sto bene.

— Potrebbe essere asintomatico.

— Non sono malato.

— E allora mi dia un documento. Lei sta commettendo un illecito. — Il poliziotto aprì lo sportello e fece per uscire dall’abitacolo con fare minaccioso.

— Io sono un rianimatore.

Il tempo si fermò.

— Come ha detto? — chiese il poliziotto, con gli occhi sgranati.

— Ha sentito bene: sono un R I A N I M A T O R E.

— E dove lavora?

— Al Sisalvichipuò.

— Mi scusi se l’ho importunata e mi scusi se le sto facendo perdere tempo. Vada pure e buon lavoro.

Il poliziotto salì sull’Alfa d’ordinanza.

— Se vuole le mostro il tesserino.

— No, vada vada. Anzi la scortiamo noi con la sirena.

— Non è necessario. Non c’è traffico.

— Insisto.

— Faccia come crede, ma…

Non ci fu verso. Piergiorgio raggiunse l’ospedale a bordo della sua utilitaria, preceduto dalla Polizia a sirene spiegate.

Il 2020 era stata la svolta per i rianimatori. Piergiorgio entrò in ospedale camminando sulle acque, a discapito dei vangeli.

Al Sisalvichipuò Hospital il tempo trascorreva inesorabile, mentre l’on. Curcuruto, nella sua villa con capitelli d’oro intarsiati e piscina olimpionica, sparava minchiate a raffica sui social network, adescando folle impazzite, desiderose di mettere like e di commentare in un italiano da quinta elementare ogni genere di notizia.

Il dottor Muccalapuni nel frattempo percorreva il perimetro della sua stanza, attendendo la nomina a direttore di dipartimento. Non avrebbe mai più detto di no all’on. Curcuruto, suo intimo amico: calzoni calati e culo a ponte, nei secoli dei secoli. Amen.

Piergiorgio era silenzioso. Guardava lo Smartphone. Marina non rispondeva ai suoi sms. Era irritata per quanto accaduto il giorno prima con Uberto Desiderio e il repentino soccorso che gli aveva negato. Ma alla fine dei conti il risultato era stato una pantomima da premio Oscar alla faccia di Benigni. La messa in scena era stata orchestrata per conquistare il cuore di Marina, ma era finita male. Piergiorgio era riuscito a spuntarla, ma la bionda fausa era un osso duro. Aveva un caratterino indomito e aveva bisogno di tempo per sbollire l’incazzatura. Non poteva nemmeno abbonirla con un mazzo di fiori, perché qualcuno aveva rubato le rose che la sua vicina di casa curava nel giardino. Era anche uscito un articolo su 24calarialive che alludeva a un ladro impavido che addormentava i cani per derubare i fiori. L’isolamento era anche questo: follia!

Marina era il culo più bello del Sisalvichipuò ed era sua: proprietà privata di Piergiorgio Morfina, anestesista-rianimatore del Sisalvichipuò Hospital. Il primo che l’avesse sfiorata con lo sguardo, sarebbe finito a testa sutta e pedi all’aria.

Lo Stromboli fumante era lo spettacolo che si vedeva dalle finestre della rianimazione. Quel panorama mozzafiato era stato il motivo principale per cui Piergiorgio aveva scelto come sede del contratto a tempo indeterminato Pizzo Calabro. Ma quella scelta gli aveva regalato Marina. E tanto bastava per renderlo il rianimatore più ricco del mondo.

Cazzeggiava sui social e fumava una Marlboro attraverso la mascherina chirurgica, mentre si sentiva nella poesia “Soldati” di Ungaretti: Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie. Nonostante fuori la primavera imperversava impertinente, lui si sentiva in bilico, pronto a rischiare la sua salute e quella dei suoi cari per un virus bastardo.

In quel momento arrivò il primo sms, ma lo ignorò. C’era l’isolamento e tutti inviavano catene di S.Antonio e vignette che lo facevano piangere anziché ridere.

Poi un altro sms.

E un altro.

Alla fine il telefono squillò. Era Edoardo, il suo amico scrittore.

— Come è andata?

— Cosa?

— La poesia, rimbambito!

— Bene. Sei stato fantastico. Poi dovrai dirmi a chi erano realmente dedicati quei versi.

— Sono uno scrittore maledetto e non so cosa sia l’amore — precisò Edoardo.

— Puoi far credere quello che vuoi e metterti la maschera che preferisci, ma non insultare la mia intelligenza. Tu sei innamorato perso! — Piergiorgio allentò la mascherina. Non la sopportava più.

— C’è una donna che mi piace, sì… è vero… ma… è gravida!

— Minchia! Sei nella merda, amico mio!

— E me lo hai tenuto nascosto! — Piergiorgio saltò dalla sedia. Accese l’ennesima sigaretta della giornata e fu assalito dalla voglia di bere. Quello sì che era uno scoop!

— E che dovevo fare? Non avresti capito… ma ora anche tu hai il cuore nello zucchero!

— Siamo due diabetici inguaribili! — disse Piergiorgio.

Poi risero.

— Ti chiamavo per una cortesia.

— Certo. Spara!

— Lei si chiama Sara, ha ventisette anni. Per ora è sopra. Ha dolore. Dilatazione 3 cm, collo appianato.

— E tu? Dove sei?

— Che domande fai! Ho un po’ di tosse e non mi fanno entrare. Sono asserragliato in casa!  — Il tono di voce di Edoardo si incupì.

Piergiorgio aspirò forate dalla sigaretta. Poteva solo immaginare lo stato d’animo del suo amico.

— Dovresti salire sopra e falle quella stregoneria che sapete fare voi rianimatori.

— Cosa?

— La partoanalgesia.

— Ma noi qui non la facciamo, siamo pochi, non possiamo… ci siamo sempre rifiutati…

— Non te lo chiederei se non fosse importante per me.

Piergiorgio non esitò. Spense la cicca nel posacenere, poi disse: — Va bene, amico mio!

L’ostetricia era al terzo piano. Piergiorgio evitò di incrociare Nadia Canotto, sarebbe stata una peridurale ficcata chissà dove. Si imbatté in una giovane moretta con i capelli a caschetto (che se la tirava manco fosse Madonna) di cui non ricordava il nome. 

— Ciao, sono qui per…

— Per?

— … una mia amica…

— Come si chiama?

Come minchia si chiamava? Nemmeno il cognome si era fatto dire da Edoardo.

Prese lo smartphone e stava per comporre il numero, ma il suo amico era stato più lesto e lo aveva informato tramite sms

— Sara Addis — disse Piergiorgio, dopo essersi rassettato la maglietta nera, che lo snelliva di una taglia.

— Sì, mi segua.

— Gradirei fare l’analgesia in travaglio di parto.

La moretta lo guardò, dopo essersi fermata in mezzo al corridoio.

— Ma lei lo sa che non ne facciamo perché quelli come voi non hanno mai dato il benestare perché sotto organico?

Come darle torto.

— Sì… lei ha ragione… però… questa è una mia amica.

— Ancora peggio! Ancora peggio! Una raccomandata! —  La moretta iniziò a martoriarsi i capelli.

— Senti, me la fai fare o no?

— Faccia quello che vuole!

Sara Addis era una grandissima scassaminchia e non comprendeva come Edoardo se ne fosse innamorato. Si lamentava per la vena, per la peridurale, per il dolore, persino per la gravidanza.

— Cosa nasce? — chiese Piergiorgio per rompere il ghiaccio.

— Una femminuccia.

— E come la chiamerà?

— Artemide.

— Come mai?

— Chiedilo al tuo amico!

— Lui è fissato con i miti greci. Lo so…

Sara Addis era sola. Purtroppo anche le nascite avevano subito una netta secessione tra ciò che si faceva prima della pandemia e ciò che si faceva dopo. Niente fiori e regali, ma soprattutto niente stanza piena di gente che bacia e accarezza puerpera e prole. Niente prosecco (ma solo perché Edoardo era taccagno) e niente familiari fuori.  Artemide sarebbe nata con la sua mamma e al nido non la avrebbe vista nessuno.

La peridurale andò bene. Per Piergiorgio fu una delle migliori partoanalgesie che avesse mai fatto. Ci aveva messo tutta l’attenzione possibile.

— Grazie, Edoardo ha un amico speciale.

Piergiorgio sorrise e mosse piccoli passi verso l’uscita. Una delle cose che lo facevano commuovere erano i parti. Piccole creature che prendono vita. Per un istante avrebbe voluto essere ostetrico, chissà che ebrezza tenere in braccio quei marmocchi morbidi intrisi di purezza. Artemide che ne poteva sapere della pandemia?

In quel momento si sentì chiamare. Era l’ostetrica.

— La prenda in braccio.

Piergiorgio tremava. Era freddo, cinico e stronzo, ma dinanzi al mistero della nascita tornava il mammalucco imbambolato davanti a Marina. Allungò le braccia e la strinse a sé. Era piccola e morbida. Lacrime calde gli rigarono le guance, mentre fuori lo Stromboli iniziava a mormorare. Quella nascita rappresentava la speranza di quel domani che sarebbe stato per lui la felicità che aveva sempre sognato e inseguito, ma che non aveva mai colto.

Lo smartphone squillò. Era un sms che recitava: ti amo. Anche un carattere indomito come quello della bionda poteva essere mitigato dal sentimento più grande che esiste: l’amore.

Si specchiò negli occhi nocciola della piccola Artemide e vide dentro il suo domani: mano nella mano con Marina, mentre dinanzi a loro l’orizzonte non sembrava per niente distante. 

E non ebbe più paura.

FINE

© Antonino Genovese

#9 Eparina

Il turno di guardia era cominciato come ormai avveniva da oltre trenta giorni. Niente baci, abbracci o pacche sulle spalle. Resistevano sorrisi forzati a battute stentate, pronunciate a denti stretti. Le abitudini erano cambiate e le cene in compagnia erano annullate, ognuno provvedeva per sé. Gli sguardi era intrisi di paura e diffidenza.

Piergiorgio pranzò con la solita accoppiata mela e banana. Cercò lo specchio in bagno, ma era stato divelto e posizionato nella stanza vestizione. Doveva smaltire la pancia da muratore, ma alla birra non riusciva a rinunciare. Potevano togliergli tutto, ma non la sua Cristalli di sale, in tal caso avrebbe alimentato i nuovi vespri: la birra Messina non dovevano toccargliela.

Quella mattina di fine marzo sembrava tranquilla. I contagi in Calabria non stavano raggiungendo i livelli della Lombardia. Non comprendeva se fosse per l’esiguo numero di tamponi effettuati, per le misure restrittive di isolamento, perché un dio li stesse proteggendo oppure (ipotesi più plausibile) era solo un colpo di culo.

Piergiorgio si sentiva in un film messo in pausa. Tutto si era arrestato. E anche la sua storia d’amore ne risentiva. Avrebbe voluto uscire, passeggiare e gridare al mondo che Marina era la donna della sua vita, ma non poteva. Il virus made in Cina stava affossando la società moderna, seppellendo abitudini e modi di vivere. Quando tutto sarebbe tornato normale, non sarebbe più stato lo stesso. Quello che prima era scontato, come un aperitivo con gli amici, la presentazione del libro di Edoardo, andare in palestra o correre sul lungomare, andava meritato e conquistato. L’umanità non aveva capito che la libertà era un dono. Così come lo era Marina per lui. Un regalo inaspettato, mentre le sabbie mobili lo inghiottivano. Era la sua alba. I contorni delle cose stavano di nuovo prendendo forma, anche le più banali. Maledetta pandemia! Ma non tutto era perduto. Se fosse sopravvissuto, non avrebbe perso nemmeno un secondo dietro minchiate che non lo rendevano felice. Avrebbe fatto solo ciò che desiderava e lo faceva stare bene.

Si crogiolava tra una Marlboro e l’altra in pensieri esistenziali, quando il telefono squillò per un codice rosso in pronto soccorso. Era il caso di un paziente “normale”, senza febbre o sintomi respiratori. Si trattava di arresto cardiaco che nulla aveva a che vedere con il coronavirus. Ma scese imbracato con ciò che riuscì a racimolare senza intaccare l’esigua scorta per le urgenze COVID accertate.

— Che succede?

— Un IMA.

— Laringo e tubo — ordinò perentorio Piergiorgio.

Quel codice rosso aveva una parvenza di normalità. Un caso grave, certo, dove serviva il sangue freddo e il cinismo di chi, come lui, era nato e viveva di scariche di adrenalina. Era la sua professione e nessuno poteva togliergliela.

— Adrenalina, dài!

Piergiorgio manteneva la calma, si esaltava nei casi spinosi. Gli piaceva stare in mezzo al caos dell’emergenza e dirigere la nave, mentre tutti pendevano dalle sue labbra. Un uomo solo al comando. Si sentiva Marco Pantani su l’Alpe d’Huez e durante tutta la rianimazione cardiopolmonare la paura del coronavirus lo abbandonò e si sentì di nuovo un anestesista-rianimatore. Ma non tutte le fiabe hanno il lieto fine, e quell’arresto cardiaco, scaraventato dal 118 in sala rossa, era finito male. Il rianimatore non è Dio. È fatto di carne e ossa. E il cuore di quel paziente non era ripartito. Piergiorgio si tolse i guanti, rimosse il tubo orotracheale e si sedette su uno sgabello.

— Chiamatemi i parenti — disse. Era sempre compito suo dare la triste notizia.

— Quali parenti? — chiese la collega del pronto soccorso, truccata, pettinata e perfettamente impupata nel suo camice bianco. In pratica non aveva alzato il culo dalla sedia. In fondo c’era il rianimatore.

— Quelli del paziente. Dobbiamo comunicare l’exitus. — Piergiorgio era stranito per la domanda.

— Non può entrare nessuno. Siamo in pandemia.

— E la salma?

— Vai in obitorio. Ci penseranno le onoranze funebri.

— Nessuno potrà piangerlo? Stargli vicino? Salutarlo?

Piergiorgio si alzò. Trattenne un singulto. Si stava rincoglionendo. Marina aveva tirato fuori una parte di lui che non conosceva, sepolta da trentasei anni di inverno. Lui era il dottor Morfina, cinico e freddo rianimatore di provincia. Eppure una lacrima prese possesso della sua guancia al pensiero che il paziente sarebbe morto solo, senza un amico a vegliarlo per l’ultima volta, né un funerale per l’ultimo estremo saluto.

Piergiorgio non credeva in una vita dopo la morte, né in un dio o nelle entità sovrannaturali. Ma alla morte, con cui tutti i giorni conviveva, aveva sempre dato dignità. Era stato il primo insegnamento del suo Maestro, disperso anche lui tra le sabbie del tempo. Gli venne in mente proprio lui, il Maestro, e la dottrina che andava aldilà della tecnica e della farmacologia: l’idea di anestesista-rianimatore, la figura che sta in mezzo al paziente, al chirurgo e ai pazienti, e coordina eventi eccezionali e drammatici. Sempre nella merda, a togliere le castagne dal fuoco, con ferie arretrate che non avrebbero mai smaltito, gli anestesisti-rianimatori dovevano al coronavirus la visibilità che negli ultimi vent’anni non avevano avuto.

Un’altra lacrima.

Ora basta, ecchecazzo!

Fumò una Marlboro e resettò il software. Era ora di tornare cinico e freddo.

Grazie all’ultimo turno e all’isolamento una cosa l’aveva capita: l’unica vera ricchezza è il tempo. Aveva un desiderio: riempire l’ufficio ticket di Marina di fiori, ma era tutto chiuso.

— Dannato DPCM! Non mi fermerai.

Si ricordò che la sua vicina di casa, che non lo credeva nemmeno laureato, anzi, pensava che di professione facesse l’anestetista e si dedicasse a eradicare bulbi piliferi (probabilmente avrebbe guadagnato di più), aveva un piccolo giardino con delle meravigliose rose rosse e tulipani da fare invidia agli olandesi. Li avrebbe presi a titolo di risarcimento dopo tanti anni di soprusi psicologici. Il problema era Spritz, che nel caso specifico non si trattava di una bevanda alcolica, ma un volpino nano bianco e cacacazzo! Abbaiava per partito preso. Anche col canuzzo aveva un conto in sospeso. Ogni santo giorno alle sette in punto iniziava ad abbaiare senza motivo, e se durante l’inverno con le imposte chiuse poteva fare quello che voleva, in estate essere svegliati ogni mattina alle sette era davvero una bestemmia. Piergiorgio aveva ovviato in un recente passato con secchiate d’acqua ripetute, che avevano maldisposto l’animale nei suoi riguardi. Come poteva fare a scavalcare il cancelletto e recuperare (a titolo di risarcimento, sia chiaro!) i fiori per la sua amata senza incorrere nell’aggressione del tremendo mastino?

Lo sconforto durò un istante, una rianimatore trova sempre il modo per ovviare agli imprevisti.

Un tozzo di pane intriso di benzodiazepine e dieci minuti di attesa bastarono per farlo cappottare. Piergiorgio controllò che il torace di Spritz si muovesse, non voleva averlo sulla coscienza e non voleva fare la respirazione bocca a bocca a un volpino malefico.

Rasò a zero le rose e i tulipani e corse via. Un fioraio non avrebbe fatto di meglio. Erano le diciassette quando si presentò all’ufficio ticket, profumato e parato come se dovesse andare a cena fuori nel miglior ristorante di pesce della zona. Teneva in mano i fiori come un trofeo.

Marina era lì, seduta al suo posto, raggiante e con un meraviglioso broncio da bimba impertinente. Piergiorgio non desiderava altro che lei.

— Alza gli occhi, alza gli occhi… — mormorò, sperando che le sue parole fossero magiche.

Gli anestesisti hanno i superpoteri e Marina alzò lo sguardo dal pc e lo vide.

I loro occhi si incrociarono e furono fuochi d’artificio.

Lei sorrise e lui ottenne ciò che desiderava per scacciare via il dolore a cui assisteva ogni giorno. Aveva bisogno del suo sorriso, incastonato nel volto dai lineamenti delicati.

Lei uscì di corsa dall’ufficio e si lanciò a baciarlo, fregandosene dei colleghi che la osservavano e di tutti gli altri medici, infermieri e OSS che avrebbero ricamato pettegolezzi sul loro conto.

— Sono per me?

Piergiorgio arrossì. Un anestesista non si emoziona mai, ma il suo sistema neurovegetativo era proprio andato. Marina con il suo sorriso lo aveva rivoltato come Primo Carnera aveva fatto con Jack Sharke nel’33.

— Sono meravigliose.

Piergiorgio non riusciva a spicciare una parola.

In quel momento passò Umberto Desiderio. Il suo sguardo da squalo famelico li osservò. Piergiorgio notò una smorfia sul volto del collega. L’istinto fu di controllare in tasca se avesse o meno il chiodino d’acciaio per la sua missione rimandata.

Ma l’idea morì ancor prima di nascere, perché Desiderio vacillò. Si appoggiò al muro, alzò di nuovo lo sguardo verso Marina e Piergiorgio, poi si piegò sulle gambe e stramazzò al suolo.

— Piergiorgio, aiutalo! — disse Marina.

— Ma sei sicura che sta male?

— Presto, presto!

— Starà fingendo uno dei suoi soliti malori, come fa sempre in sala operatoria!

— Sta male davvero!

— Io non sono in servizio.

— E allora chiama sopra!

— Va bene, mi farò portare l’eparina. Ma dirò di fare piano, siamo in pochi, non vorrei che qualcuno si facesse male correndo!

Piergiorgio ripensò ai fiori. Chissà se la sua vicina aveva anche qualche crisantemo da prestargli…

© Antonino Genovese

# 8 L’amore ai tempi del COVID19

Piergiorgio lasciò che la stanchezza lo cogliesse impreparato. Bevve l’ultimo sorso di birra Messina cristalli di sale e accese una Marlboro. Il campanello squillò senza preavviso, rompendo il silenzio grazie a cui aveva trovato il suo equilibrio mentale, tra il pensiero di Marina e una FFP3.

Voltò lo sguardo verso il campanello. Non poteva aver suonato. Se l’era immaginato. Non aspettava nessun corriere. Non aveva una fidanzata. Sua madre era rinchiusa a Cosenza e non poteva muoversi. E i suoi amici sgattaiolavano come topi dagli appartamenti per fare la spesa una volta a settimana (dichiarata) o portare il cane a fare la pipì ventiquattro volte al giorno.

Accese la Marlboro e di nuovo il campanello squillò. Non era un’illusione. Odorò la sigaretta: era tabacco.

— Chi è? — chiese al citofono.

— Sono Marina.

Che ci faceva sotto casa sua?

Spense la sigaretta. Spazzò via dal divano le bottiglie di birra e le altre cianfrusaglie. Marina era andato a trovarlo in barba a tutti i DPCM, ordinanze, sindaci metropolitani e disposizioni di servizio. Il suo cuore si tuffò in una piscina ricolma di miele. Rassettò in pochi minuti, gettando tutto nella pattumiera. Poi volò in bagno per una spruzzata di Sauvage. Odorò le ascelle: potevano andare! Non aveva tempo per cambiarsi. I passi di Marina sul pianerottolo si facevano sempre più vicini. Prese un respiro profondo e aprì la porta nel momento esatto in cui la donna stava dinanzi a lui. Era fantastica. La mascherina le copriva il naso e la bocca, ma gli occhi brillavano di una luce primaverile.

Piergiorgio restò immobile, imbambolato come quando aveva visto La Venere di Botticelli agli Uffizi di Firenze e non si era mosso per parecchi minuti, incantato da tanta bellezza. Una sensazione che ti paralizza, non riesci a parlare e respiri solo perché è un processo involontario.

— Posso entrare?

— Certo. — Piergiorgio rinsavì, poi si spostò, indicando il piccolo salotto.

— Ti posso offrire qualcosa? — chiese, togliendo l’ultimo numero di Dylan Dog dal divano.

Marina si accomodò con eleganza. Il suo profumo era un uragano. Il cuore di Piergiorgio galoppava, sembrava Furia il cavallo del West. Si ricordò che il frigo era vuoto, ma una bottiglia di Valdobiadene lo salvò in calcio d’angolo.

— Fai tu — disse la donna, mentre lo scrutava.

Piergiorgio stappò la bottiglia e poi disse: — A cosa brindiamo?

— Alle parole che mi hai scritto. Sono bellissime. Sono venuta per dirtelo di persona. Non mi andava di scrivertelo in un sms!

— Marina, io…

Piergiorgio si avvicinò. Gli occhi di lei erano languidi e le labbra, coperte da un rossetto rosso fuoco, umide e sensuali.

— Piergiorgio, io…

E si fici a frittata.

Lui le prese le guance tra le mani e la baciò, e pensò che quello era per lui il primo bacio, come se fino a quel giorno non avesse mai amato. Si perse nelle distese sconfinate del suo corpo, affrontando curve repentine e mozzafiato, guidando con una mano sola, mentre tutt’intorno la casa, il divano e la città stessa scomparivano. Insieme a lei, in quel connubio di corpo e mente, pazzo e sregolato, si sentiva finalmente parte dell’universo.

Pace.

E la primavera era arrivata, puntuale. E aveva scacciato via l’inverno gelido che lo aveva investito.

E chi se fotteva del virus cinese!

Che non era solo sesso lo aveva compreso subito. Sotto l’involucro (meraviglioso) c’era qualcosa che lo attirava ancora di più: un ciriveddu e un cuore.

Da quella sera niente sarebbe stato più come prima. Il cibo non avrebbe avuto lo stesso sapore e persino la luna e le stelle avrebbero brillato in maniera diversa.

Si ritrovò solo a riflettere, mentre iniziava il suo turno di notte. E pensò che si era rincoglionito davvero. Per Marina aveva preso un muro di faccia ed era rimasto schiantato.

Ma poteva mai innamorarsi una come lei di uno come lui?

E soprattutto poteva uno stronzo patentato come lui innamorarsi? Era un cinico e freddo rianimatore. E non era previsto che perdesse la testa per una bionda fausa!

Iniziò il turno di notte con il suo solito rito scaramantico. Un pugno di sale ai quattro angoli del nosocomio, una spruzzata sulla testa e una sulla divisa. Ma sapeva già che sarebbe stata una notte di merda: all’ingresso aveva incontrato Nadia Canotto, l’ostetrica con le tette che parevano un salvagente. Per mantenerle in forma ci voleva il fisico e, nonostante i cinquant’anni, pareva le tenesse ancora su con reggiseni a forma di balcone in cemento armato. Ma aldilà del seno prosperoso, Nadia aveva un difetto: portava Sfiga. Ma non sfiga, bensì Sfiga con la s maiuscola. E non era stato ancora forgiato un amuleto che riuscisse a contrastare la sua potenza.

— Buonanotte, dottore!

Buonanotte, un cazzo! Si era lasciato andare in gesti scaramantici di ogni tipo, sale in abbondanza, aveva messo in tasca un corno rosso, aveva accarezzato il ferro di cavallo (eredità di nonno Turi), che teneva nell’armadietto per i casi disperati. Niente! Non c’era verso. Quando Nadia Canotto salutava… la notte era persa!

A fargli compagnia in quella serata di sventure c’era Pippo Bibita: alto, secco, asciutto. La capigliatura a casco di banane era tenuta in sesto da una fitta impalcatura costruita con gel e altre diavolerie cosmetiche.

— Piergiorgio, guarda che ti faccio vedere! — disse, mostrandogli il cellulare.

— Stiamo a un metro.

— E dai… questa è la mia ultima conquista: si chiama Rosalinda.

— Una mora?

Pippo annuì.

— Ma non ti piacevano le rosse?

— Guarda, ti dirò. Ho iniziato con le bionde, ma sai… sopra erano bionde e sotto… non sempre, ho continuato con le rosse, ma sai… troppe lentiggini e poi, sei rianimatore pure tu, i “rossi” hanno sempre problemi sotto anestesia.

— E ora sei passato alle more?

Pippo Bibita annuì.

— Da quando c’è il coronavirus dico a tutte che sono rianimatore e… indovina? Me la vogliono dare. Io dico: no, no, no… e loro invece insistono… non sai che fatica!

— Immagino.

— Alla mia nuova fiamma ho regalato l’i-phone 11 pro.

— Già che c’eri e hai tutti sti soldi da buttare per una storia che durerà non più di un mese potevi anche regalarle l’11 pro max!

— E qua ti sbagli, — disse Pippo con uno scintillio febbrile negli occhi azzurri, — l’i-phone è 11 pro… il max ce l’ho io in mezzo alle gambe!

Poi si lasciò andare in una risata fragorosa.

— Indossa bene la mascherina, non vedi che ti cade?

— Ce l’ho da sei giorni, la farmacia le dà col contagocce, — rispose Pippo, tornato serio.

Piergiorgio pensava a Marina, non voleva togliersi di dosso la sua fragranza.

Mentre l’orologio in cucina segnava mezzanotte e l’idea di averla fatta franca alla buonanotte di Nadia Canotto prendeva forma nella sua mente, squillò il telefono. Il taglio cesareo, che in tempi di normalità era considerato una grande rottura di scatole, quella notte fu una benedizione. E anche il taglio cesareo successivo non fu visto in maniera ostile. Un cesareo tira l’altro come le ciliegie. Per fortuna non c’era di turno Aida Sguaitamatti!

La mattina seguente Piergiorgio si sentiva mezzo miracolato. Aveva persino riposato due ore.

Ma i quattordici giorni di isolamento del primario erano terminati. Quando vide Muccalapuni entrare in cucina con la sua faccia da pugile, il corpo tozzo, il collo assente e l’orrendo riporto di capelli tinti con un colore innaturale che tendeva all’arancio, comprese in quel momento che la buonanotte di Nadia Canotto non lasciava scampo.

— Dottore Morfina, dove va? — disse, con la voce da fumatore incallito.

— Smonto.

— Chiama Gargamella, ho deciso di rivedere il percorso COVID.

— Ma se lo avete fatto insieme telefonicamente.

— Sì, ma vedi? Non ho niente da fare oggi, e quindi rompo le palle.

Gargamella entrò, trafelato. Occhiali, mascherina e cappellino perfettamente indossati. Ma il telefono di Muccalapuni squillò con l’inconfondibile colonna sonora di Nove settimane e mezzo. Era l’on. Curcuruto.

— Come dici?

— …

— Non ci sono ventilatori sul mercato?

— …

— Non ci sono nemmeno soldi?

— …

— Alla stampa devi dire che siamo pronti, tranquillo ti copro io. Il Sisalvichipuò è pronto!

— …

— Mi serve personale? No, assolutamente no. Ho quattro ragazzi volenterosi che sono ben felici di prenderla nel didietro.

— …

Muccalapuni rise.

— … (risata)

— Non consumeremo lubrificanti, stai sereno!

— … (risata)

— Ne approfitto per chiederti una cosa? La mia nomina a capo dipartimento… anticipiamola! Che ne pensi?

— …

— Grazie grazie grazie.

Muccalapuni chiuse la telefonata con un sorriso che mise in evidenza gli effetti della nicotina sul suo apparato dentario e gengivale.

— Allora, Caposala Gargamella!

— Primario, mi dica. Noi abbiamo sistemato alla meglio seguendo le sue indicazioni e quelle del facente funzione.

— Sei stato bravo, ma dobbiamo rifare tutto.

— Tutto?

— Tutto!

Piergiorgio si intromise: — Ma guardi che stiamo rispettando le linee guida, compatibilmente con la struttura.

— Qualcuno ti ha detto di parlare, Morfina?

— No, ma…

— Ma comando io! — Muccalapuni sbatté il pungo sul ripiano della cucina.

Piergiorgio e Gargamella si lanciarono un’occhiata rassegnata.

— Modificheremo due o tre cose. Faremo foto, video, dichiarazioni. Gargamella, chiama l’ufficio stampa. Noi siamo pronti per l’emergenza COVID.

— Sì, primario. Glielo dica all’onorevole.

— Cosa?

— Che non abbiamo nemmeno gli occhi per piangere!

© Antonino Genovese

#7 Evelyne

Piergiorgio era dubbioso. Era arrivato il momento di dichiararsi apertamente? Una poesia poteva bastare per conquistare il cuore di Marina? Le bionde fause dai capelli lunghi, le cosce affusolate e gli occhi ambrati erano le più difficili da conquistare: nonno Turi glielo diceva sempre.

Era meglio aspettare che l’isolamento terminasse per riempirla con una vagonata di fiori? L’incertezza lo perseguitava, mentre consumava una Marlboro dopo l’altra, rinchiuso tra le mura del suo appartamento da single. Bastava un centimetro un po’ più in là o un po’ più in qua per mandare tutto all’aria.

Aprì il frigo: era vuoto. Non faceva la spesa nemmeno al tempo  del coronavirus. Mezzo limone ammuffito e puzzolente era l’unico esemplare superstite della pandemia. Per un istante la tachicardia investì il torace di Piergiorgio, ma si rincuorò alla vista dell’unica donna che non lo aveva mai deluso: Birra Messina ai cristalli di sale. Le dodici bottiglie allineate gli fecero passare la crisi ansiosa che stava iniziando a montargli dentro.

Stappò la bionda siciliana e ricopiò con la miglior calligrafia possibile i versi di Edoardo. Erano profondi. Ma da dove venivano quei pensieri? L’ultima volta che il suo amico si era espresso senza dire una parolaccia o regalare frasi maliziose a doppio senso era stato il giorno della prima comunione. Poi si era rivelato per ciò che era realmente: un depravato. Adesso se ne usciva con una poesia alla Pablo Neruda. Niente niente che si era innamorato anche lui? Di chi? Forse un’asiatica?

Piergiorgio ragionava. Aveva bisogno di un piano per conquistare Marina. Non poteva presentarsi sotto casa sua e mettersi a recitare la poesia. Avrebbe balbettato al primo rigo. E poi si sarebbe sentito in imbarazzo. Per non parlare delle sentinelle (Santa Maria Goretti ed Elizabeth II di Gluecity) che gli avrebbero fatto i raggi X. Scosse la testa. Non era fattibile.

Tracannò l’ultimo sorso di birra, mentre i suoi neuroni correvano intorno alla soluzione. Gli sarebbe servita la sua amica del cuore.

Il problema principale era rintracciare Evelyn, la romanaccia. Assegnata a un ufficio della direzione sanitaria di presidio, quindi imboscata, sarebbe stata un’ardua impresa poterci parlare. Tra una missione, una 104, un permesso retribuito e un giorno di ferie, rischiava di incontrarla tra non meno di trenta giorni. Lo sconforto lo colse impreparato, poi lo smartphone squillò. Era l’oroscopo di Nostradamus, che recitava così: “La fortuna vi accompagna in famiglia con davvero bei momenti da vivere insieme ai vostri figli o parenti stretti come nonni o zii, cugini, ecc…

Minchiate! Era single, isolato, mezzo depresso e con due mongolfiere in mezzo alle gambe che presto gli avrebbero fatto prendere il volo.

Continuò a leggere: “Il fato può portarvi qualcosa di buono soltanto se avete seminato in passato e quindi si tratterà comunque di una fortuna meritata piuttosto che caduta dal cielo. Ottime giornate quelle di venerdì e sabato per provare a giocare ad una lotteria ma ricordatevi di giocare il minimo indispensabile.” 

Primo: la lotteria era stata bloccata dal governo. Secondo: venerdì era troppo lontano e non pensava che il coronavurs gli avrebbe lasciato scampo. Terzo: che cosa aveva mai seminato di così importante nella sua vita? Non aveva mai nemmeno avuto un orto! L’oroscopo era un’emerita stupidaggine, creata per i creduloni come lui.

Riprese a fumare. Guardò l’ora: il suo turno di guardia iniziava tra meno di mezz’ora. Si vestì di tutto punto e si scapicollò in ospedale. Aveva lasciato la sua utilitaria con una ruota in un’aiuola. Le ferie erano state revocate a tutti e quindi trovare un parcheggio al Sisalvichipuò Hospital era diventato più difficile che vincere la lotteria Italia.

Tutti i dipendenti del nosocomio erano pervasi dalla folle paura di infettarsi. Non si parlava, non si scherzava e si comunicava a gesti.

Piergiorgio era imbracato al punto che sembrava un Talebano e difficilmente riconosceva i colleghi di lavoro tra mascherine e cuffiette.

Il Sisalvichipuò aveva subito la mutazione tanto temuta, dettata dalla sempre più diffusa patologia del nuovo millennio: il cacazzo.

Sei tenuta a damme la mia mascherina, capito? Nun mene frega un cazzo se non ne avete! Io nun ce vengo a lavorà se non mi date i dippiì!

Il volto di Piergiorgio si illuminò. Non riusciva a vedere Evelyne, ma sentiva la sua voce. Era lei: la grandissima scassapagghiaro e attaccabrighe romana!

Accelerò il passo. Doveva incrociarla. Voltò l’angolo e se la ritrovò davanti. Stava litigando con Gianna Apnea, che utilizzava i suoi modi garbati per abbassare i toni della discussione.

Direttore, nun me ne frega niente di niente. Echecazzo!

— Ciao — s’intromise Piergiorgio.

— Dottore Morfina, per favore, non si metta in mezzo anche lei, che già stamattina in questa direzione facciamo scintille.

Che vuoi pure te? — Evelyne era un toro nell’arena pronto a caricare.

— Non ho potuto fare a meno di ascoltare e posso risolvere io il problema della signora Evelyne — precisò Piergiorgio, rivolgendosi al direttore sanitario, prima di ruotare lo sguardo verso la ragazza.

Signora sarà tu sorella.

— Dottore Morfina, se ha la soluzione, se la veda lei. — Gianna Apnea voltò le spalle e si allontanò, mettendo in mostra il suo lato b, che non aveva niente a che vedere con quello di Marina. Il fondoschiena del direttore sanitario, più che parlare, assomigliava a una televisione vecchio modello con cinescopio!

Allora, dimme come mi puoi aiutà, a me serve una mascherina, sennò giuro che a quella le tiro i capelli e glieli faccio magnà.

Piergiorgio ripensò all’oroscopo. Ecco la sua semina: avrebbe procurato una mascherina a Elevelyne.

— Te la do io, conosco il nascondiglio segreto di Gargamella.

Annamo, a chi stamo aspettanno?

Piergiorgio ed Evelyne, una moretta dall’aria incazzusa e l’occhio sveglio, raggiunsero la stanza del caposala del reparto di Rianimazione.

Ce vedono tutti. Sei proprio un cojone!

— Statti muta almeno un secondo.

Nun è che sei juventino? A me i juventini me stanno sur caz…

— Ti ho detto stai zitta, sennò ci fai sgamare!

Ma sei juventino?

Piergiorgio la ignorò. Era juventino fin dentro il midollo. Nel suo cuore c’era tatuata una “J” e se si fosse tolto la camicia il tatuaggio della Vecchia Signora sarebbe scintillato, ma evitò di rispondere. Controllò il corridoio: era deserto. In cucina intravide la sagoma di Pippo Bibita, giovane anestesista neo-assunto, bello e dannato. Infermiere, ostetriche e dottoresse avrebbero fatto a cazzotti per lui. Si vociferava che fosse ben dotato. Evitò di incrociarlo per non sorbirsi il lungo elenco delle sue innumerevoli conquiste.

Piergiorgio si muoveva rasente al muro e si rivedeva in un film di 007. Per un attimo si sentì Sean Connery, ma poi si voltò, dietro di lui c’era Evelyne. Si rese conto che non era Ursula Andress e che non si trovavano su una meravigliosa spiaggia, ma bensì in un reparto di Rianimazione ai tempi del COVID19.

Raggiunsero la stanza di Gargamella. Si fiondarono dentro. Con maestria Piergiorgio aprì il vecchio e sconquassato armadietto del caposala e con somma soddisfazione trovò un pacco intonso e sigillato di mascherine chirurgiche. Ne afferrò due, poi scappò via, seguito dalla romanaccia.

Grazie, Pergiò, sei stato n’amico. Hai rischiato per me e questo nun lo dimenticherò.

— Figurati.

Se posso fà qualcosa pe’ te, sai dove trovamme.

Evelyne gli voltò le spalle per tornare in direzione a sbrogliare carte, ma dopo la semina, c’è sempre il raccolto. Lo diceva l’oroscopo.

— Effettivamente volevo chiederti una cosa — disse Piergiorgio.

Dimme pure. — La donna gli piantò addosso i suoi occhi picei.

— Sei la miglior amica di Marina?

Evelyne annuì.

— Ho bisogno che le fai avere questa. — Piergiorgio le porse una busta.

La mora la prese e la rigirò tra le mani. La mise in controluce cercando di scorgerne il contenuto — Che cos’è? — chiese.

— Una cosa che vorrei leggesse Marina.

Perché nun poi dargliela te?

— Insomma… è personale… intima…

Me sta a salì la glicemia. Nun me dì che è una lettera d’amore?

Piergiorgio alzò le spalle e fece segno che ci aveva quasi azzeccato.

Preparame l’insulina. Sarà mica ‘na poesia?

Evelyne si diede una manata in fronte.

Se ci tieni gliela do oggi stesso, ma nun te voglio illudè, l’amica mia è cotta, ha la testa tra le nuvole, gli occhi sognanti, il cuore nello zucchero…

— Non ti ha parlato di me? — chiese Piergiorgio.

Nun me ha detto niente di niente. E appena me dice che s’è ‘nnamorata, glie spacco la capoccia!

— Ma scusa che hai contro l’amore? — Piergiorgio proprio non capiva.

Voi uomini siete tutti ‘na massa di stronzi. Ma te voglio aiutà, oggi stesso le darò la tu’ busta.

— Grazie.

Nun c’è de che. Ma te posso chiedè io n’altra cosa?

— Certo.

Me procuri una FFP3?

© Antonino Genovese

#6 Sms, conversazioni telefoniche e un amore sconsiderato

Piergiorgio restò imbambolato dinanzi alla BMW serie 6 nera fiammante, parcheggiata dinanzi all’ingresso del Sisalvichipuò Hospital. Si grattò la testa e corrugò la fronte. Osservò il cielo. La primavera non poteva sapere che un virus letale e altamente contagioso si spandeva dal nord al sud dello stivale e mieteva vittime come niente fosse. Il sole splendeva alto in cielo e riscaldava le sue membra assuefatte. Gonfiò il petto. Si sentiva importante. Per una volta nell’arco della sua carriera non ragionava più sui turni festivi o sulle notti insonni, ma aveva assunto quel ruolo che da sempre competeva agli anestesisti-rianimatori. Altro che medicina dei servizi. Si ripromise di scrivere una lettera al ministro per far togliere quella dicitura ignobile. Da un mese ormai i ginecologi, i chirurghi e i vascolari non rompevano con false urgenze, tranne chi aveva lasciato i libri all’università e non comprendeva il momento storico che stavano vivendo.

Piergiorgio amava il mare in tempesta. Il suo posto era sempre stato sulla cresta dell’onda. E tutte le storie d’amore che aveva avuto, i flirt le mezze toccate di minne erano passi che lo conducevano a lei: Marina, che rappresentava la metà della sua mela. Sarebbe stata perfezione accanto a lui in mezzo alla spuma del Tirreno. Lo sentiva. La percepiva aldilà dell’involucro. E il suo sesto senso non sbagliava mai, sia in sala operatoria, sia quando si imbatteva nel meraviglioso profumo di Marina. 

La BMW era lì e lo guardava con occhi di sfida.

— A noi due — mormorò Piergiorgio, prima di accarezzare il chiodino d’acciaio.

Umberto Desiderio, questo è per aver cenato con Marina, pensò.

Mosse due passi verso il SUV, controllò che nessuno lo stesse osservando. Il parcheggio era deserto, vedere gente in giro era utopia; ad eccezione del quarantenne che faceva jogging con indosso una bella FFP3 e che aveva mandato a strabenedire qualche minuto prima di varcare la sbarra dell’ospedale.

Stringeva in mano il chiodino appuntito. Era a pochi centimetri dalla carrozzeria immacolata, pronto a sancire la sua vendetta, ma fu in quel momento che il suo telefono vibrò.

Chi poteva essere?

Si paralizzò quando lesse il mittente del messaggio: Marina.

Spero di vederti in ospedale. Ho ripensato al tuo invito e ho deciso che a cena voglio andare solo con te.

Mai buongiorno fu tanto gradito. Si sentì in un fumetto: due ali alle caviglie lo portarono a un metro da terra. Il sole che prima lo riscaldava, adesso gli strizzava l’occhio e il cielo azzurro della sua Calabria lo avvolse in un abbraccio. E si sentì in pace con l’universo. La carrozzeria era salva, per adesso. L’operazione chiodino d’acciaio non era annullata, ma rinviata. Desiderio aveva un conto in sospeso… per sempre! Ma in testa gli balenò il tabellone allo stadio: Morfina 1 – Desiderio 0.

Piergiorgio non rispose all’sms, ma si precipitò dentro e fece la fila al timbro, poi si diresse all’ufficio ticket. Dietro il vetro Marina era assorta e non si accorse che lui le andava incontro. I capelli le coprivano in parte il volto e scendevano morbidi come seta sulle spalle. Si avvicinò così tanto allo sportello che trasalì quando la signora Anna tossì.

— Buon… buongiorno — disse Piergiorgio, che avvampò. Il suo volto tondo divenne rosso come un pomodoro cuore di bue.

— Dottore, ha bisogno di qualcosa? Come mai si trova ai piani bassi?

Anna, una mora cinquantenne dal volto gentile e gli occhi scuri e impenetrabili, sorrideva, sorniona. Piergiorgio capì che lo aveva visto imbambolato, completamente incantato da Marina.

— No.. No… insomma… passavo di qui…

— Per caso?

Piergiorgio era imbarazzato. Non riusciva ad elaborare una delle sue proverbiali risposte, che lo avevano sempre tirato fuori dalle situazioni spinose. Marina era il suo tallone d’Achille.

— Volevo chiedere un’informazione… ma Marina è impegnata.

— Io sono libera. — Anna sorrise.

— Sì… ehm… allora… io… — Piergiorgio iniziò a contorcersi le mani, mentre l’incendio continuava a divampare sul volto.

— Allora? — Anna sembrava divertita. Si prendeva gioco del rianimatore. Ma Piergiorgio non riuscì a scriverla nella lista nera di coloro che non avrebbe intubato durante la pandemia. I modi gentili della donna la annoveravano tra i salvabili.

— Ecco… sì. Mi serve un ricettario. — Era una proverbiale minchiatuna ca pala, ma non gli venne in mente altro.

— Gli ambulatori sono chiusi, ma se proprio ne necessita un altro, dovrebbe consegnare quello vecchio.

— Grazie dell’informazione, sa che faccio? Aspetto che la sua collega si liberi così mi faccio spiegare meglio.

Anna sorrise e poi mimò un cuore con con indici e pollici.

Piergiorgio sorrise, imbarazzato. Si sentì come se fosse nudo di fronte a cento donne.

— Senta, posso chiederle una cortesia? — sussurrò poi, — non dica a nessuno che sono innamorato. Sono un cinico, freddo e stronzo rianimatore di provincia. Potrei rovinarmi la piazza.

Anna rispose con un occhiolino, poi disse: — Continuo io col signore, il dottore ha bisogno di parlare con te.

Marina alzò lo sguardo dalle impegnative. Il broncio da bambina viziata lasciò il passo a un sorriso delizioso. Piergiorgio fu colto dalla voglia di afferrarle il volto e stamparle un bacio (sbattendola al muro!), ma si limitò a dire: — Ciao.

— Ciao — rispose Marina.

Quella sua voce era l’unica che voleva sentire tutte le mattine quando si svegliava. Piergiorgio rinsavì. Si era rincoglionito per due occhi da cerbiatta e un culo parlante (che quella mattina non aveva potuto ammirare)! Non poteva essere solo quello.

— Sono passato a salutarti.

Anna li osservava con occhi da sentinella. Piergiorgio si sentì squadrato e controllato e si mise sull’attenti, come se si trovasse in una caserma e fosse sotto esame dal suo superiore.

— Grazie del pensiero.

Un silenzio imbarazzante frugava nella mente di Piergiorgio.

Allora … ci sentiamo.

— Ti aspetto — disse Marina.

Piergiorgio rafforzò il saluto con un cenno della mano e raggiunse il reparto, saltellando.

Il clima che regnava in Rianimazione era di allerta e tensione. Le discussioni sempre le stesse: tamponi che non arrivavano, ventilatori limitati, maschere da sub modificate per CPAP.

Gargamella, sempre più incazzato col mondo, cercava soluzioni: vecchi ventilatori diventavano funzionanti, attacchi dell’ossigeno venivano installati alle pareti, e poi percorsi sempre nuovi per l’emergenza. I casi in Calabria aumentavano: dovevano essere pronti. La paura di poter contrarre la malattia aleggiava, ed era peggio dei turni massacranti e delle ferie revocate. Tutti avevano qualcosa da perdere. Il coronavirus aveva azzerato le certezze, alimentato l’angoscia e resettato tutte le abitudini.

Piergiorgio iniziò il turno di emergenza, sperando che non arrivassero COVID. Aveva trovato Marina e si era imbattuto in qualcosa che soltanto una volta si incontra nella vita: l’amore. E non voleva rinunciarci. Mai più.

Piergiorgio si isolò, altrimenti l’ansia lo avrebbe assalito. Un po’ di sano cazzeggio su Facebook lo avrebbe tranquillizzato. I suoi amici si erano trasformati tutti in provetti panettieri e pizzaioli, per non parlare di una grossa fetta di analfabeti che si erano immedesimati in virologi di grido. Persino l’onorevole Curcuruto continuava a postare minchiate. Passò oltre. Non aveva voglia di incazzarsi con politici e burocrati.

La sua attenzione fu catturata da un articolo: l’ospedale di Vattelapesca, nel cuore della Lombardia, era in affanno. Mancavano rianimatori. Per un istante pensò che era il momento di partire e dare una mano lì dove c’era bisogno. Che ci faceva rinchiuso in un ambulatorio come un codardo? Ma il suo posto era lì: al Sisalvichipuò Hospital.  E doveva pensare alla sua gente.

Una lacrima gli rigò la guancia. Al Vattelapesca lavorava Oreste Trepalletreteste, suo amico e collega. Compose il suo numero e lo chiamò. Si salutarono, commossi.

— Come stai?

— Sono sfinito. Lavoriamo giorno e notte. Combattiamo un nemico invisibile.

— Sto vedendo sui giornali e in TV.

Dopo una breve pausa Oreste chiese: — Com’è la situazione laggiù?

— Speriamo di contenere, altrimenti non avremo scampo.

Piergiorgio immaginò Oreste annuire.

— Ve lo auguro. Questa pandemia è una tragedia senza precedenti. La gente muore sola, lontana dagli affetti. Senza un amico o un parente che possa stringergli la mano. Senza nessuno che pianga al funerale.

Oreste trattenne un singulto.

— Come posso aiutarti?

— Non c’è modo. La stanchezza dopo diciotto ore si sente. Non abbiamo più posti letto e ieri… ieri…

— Cosa è successo? — Piergiorgio non nascose l’apprensione.

— Ho dovuto scegliere se intubare un giovane o un altro meno giovane.

— Meno giovane? Che intendi?

— Tra un quarantenne e un cinquantenne.

Piergiorgio non riuscì a replicare. Non avrebbe mai voluto trovarsi in quella situazione.

— Non è stato facile…  — riprese Oreste.

— Cosa possiamo fare?

— Prega, amico mio.

— Io non credo a niente, lo sai.

— Nemmeno io.

— E allora?

— Trova la fede, altrimenti trova qualcuno che preghi per te.

La fine del turno arrivò. E fu sera. Solo nella sua casa le ombre del coronavirus aleggiavano insieme alle parole di Oreste. Per Piergiorgio non ci fu modo di prendere sonno.  La radiosveglia segnava le due quando lo smartphone squillò. Era un sms di Edoardo e recitava così: ecco la poesia per la tua bella.

Seguì una foto col testo.

Il tempo. Vorrei donarti il tempo

e sorrisi senza pianti,

giornate senza nuvole per passeggiare

e piovose per fare l’amore,

vorrei regalarti la felicità

e la vita che c’è nello sguardo acerbo di un bambino,

vorrei donarti la quotidianità

fatta di sguardi, senza promesse non mantenute,

e l’amore a modo mio,

fatto di incertezze e sbagli, carezze e abbracci,

vorrei donarti la mia anima

affinché tu possa percepire

qual è il vero regalo che voglio farti.

Il mio tempo, con te.

Piergiorgio rimase stupito. Anche Edoardo aveva un animo delicato e sensibile, nascosto dietro la scorza dura da scrittore underground.

#4 Muta da sub


Il conoravirus avrebbe causato molte vittime, di questo ormai Piergiorgio ne era certo. Ma al di là degli infetti e delle polmoniti intrattabili, molti sarebbero finiti sotto le grinfie dei becchini per una patologia tanto diffusa quanto misconosciuta: il cacazzo.

Anche Piergiorgio se la faceva sotto dalla paura. Non solo per quella di infettarsi e di finire con un tubo in gola a causa delle venti (dichiarate) sigarette al giorno, ma soprattutto lo inquietava il terrore di non potersi recare da Nonna Veronica, che lo riempiva di prelibatezze. Il freezer già iniziava a svuotarsi e, se l’isolamento continuava, sarebbe finita a mozzarella e scatolette. Altro che parmigiana di melenzane. I suoi addominali erano in pericolo. Ma meditava un piano b: nonna Veronica poteva tranquillamente lasciare i manicaretti da congelare nell’ascensore, evitando di correre il rischio di infettarsi. Senza la sua pancia da rianimatore non si sentiva se stesso. Avrebbe fatto questo sacrificio per tutelare l’immagine di tutta la categoria. Si ripromise di chiamarla nel momento in cui i viveri fossero davvero ridotti all’osso. Meglio non rischiare la salute della nonna. Si sarebbe rimesso in carreggiata una volta fronteggiata la pandemia.

Piergiorgio, come ogni sacrosanto giorno, varcò la soglia del Sisalvichipuò Hospital, ma quella mattina trovò una bella novità: nella stanzetta del timbro si entrava uno alla volta e bisognava mantenere un metro di distanza gli uni con gli altri. Dopo dieci minuti di attesa sfoderò il cartellino e iniziò ufficialmente il turno sotto gli occhi della dottoressa Gianna Apnea, il direttore sanitario di presidio fresca di nomina, premiata per le sue grandi qualità… sotto la scrivania dell’On. Curcuruto prima e dell’assessore regionale alla sanità dopo. Senza considerare le male lingue che urlavano a gran voce un suo passaggio sotto lo scrittoio (piccolo, ma comodo) del direttore generale. La dottoressa Apnea, mascherina sotto il naso, occhialino da professoressa e capello fresco di piega (con le parrucchiere chiuse Piergiorgio non si capacitava di cotanta ostentata perfezione) vigilava sul rispetto della distanza di sicurezza con un bastone lungo un metro.

— Dottore Morfina, dov’è la sua mascherina? Perché ne è sprovvisto?

La voce sgradevole lo riportò alla realtà, trascinandolo via dal sogno che stava facendo: la tavola cunzata a casa di Nonna Veronica.

— Direttore, buongiorno. Non credo che il mio reparto sia fornito di mascherine in abbondanza. Se ne troverò una, la indosserò.

— Oggi sono arrivate ben cinquanta mascherine. Non si lamenti e rispetti le regole.

Piergiorgio annuì. Non aveva voglia di iniziare il turno polemizzando.

Si voltò e squadrò la dottoressa Apnea: non si sarebbe fatto sfiorare nemmeno con un dito, né sotto, ma tantomeno sopra la scrivania.

Arrivato alla fine del corridoio, anziché continuare dritto verso la scala che lo avrebbe condotto in Rianimazione, svoltò a destra per passare dinanzi all’ufficio ticket. Marina era lì, seduta alla sua postazione. La osservava. Era bella. Una bionda (fausa) con occhi da cerbiatta. Non riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. La donna era impegnata a discutere con una paziente gravida che doveva fare una visita in intramoenia con la sua collega ginecologa Aida Sguaitamatti, ricercatissima dalle pazienti, ma da evitare come la peste per il suo scarso appeal con i libri universitari: non li aveva mai aperti.

Quando Marina alzò gli occhi dalle scartoffie i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri. Piergiorgio sentì che le gambe gli stavano crollando. Quando lei gli regalò un sorriso, lui alzò la mano destra e la salutò. Stava per tornare indietro e imboccare il corridoio per raggiungere il suo reparto, ma si sentì chiamare. — Dottore, dottore.

Piergiorgio si voltò. Era lei. Ebbe il dubbio che si stesse riferendo proprio a lui. Un anestesista che veniva chiamato “dottore” era cosa insolita. Ma i tempi stavano cambiando.

— Sì… sì… sono io.

Piergiorgio, cazzuto, cinico e stronzo rianimatore, iniziò a tentennare e si meravigliò di se stesso: non era da lui.

— Dottore Morfina, lei è un anestesista?

— Sono rianimatore, sì.

Piergiorgio non apprezzava essere etichettato come quello che addormentava e svegliava i pazienti. Il suo lavoro era ben altro. Definirsi rianimatore lo faceva sentire più figo, specie in tempo di coronavirus.

— Volevo chiederle una cortesia.

— Certo, ma a una condizione. Non sono poi così vecchio. Diamoci del tu e mi sentirò meno in imbarazzo.

— Certo, certo — disse Marina. Le sue guance si imporporarono.

— Come ti posso aiutare?

Marina si avvicinò al suo orecchio e Piergiorgio approfittò della vicinanza per assaporare il suo profumo. Ne fu subito certo: si trattava di Bottega Veneta. Il suo olfatto non mentiva mai. Poteva riconoscere ogni tipo di fragranza.

— Puoi procurarmi una mascherina FFP3?

Piergiorgio si sentì preso in contropiede. Ipotizzava altro: una cena in un locale romantico (post isolamento), un viaggio all’Allianz Stadium a vedere la Juventus (post riapertura campionati), una passeggiata in riva al mare (le spiagge il premier Conte le aveva chiuse o no?).

— Veramente… non penso che ne abbiamo… forse una… o due…

Il volto angelico di Marina si rabbuiò. Un velo di delusione le adombrò lo sguardo.

— Ma non ti preoccupare. Te ne procurerò una. Per me niente è impossibile.

Il sorriso carico di fiducia della donna ristabilì il suo equilibrio con l’universo.

— Grazie, Piergiorgio. Sapevo di poter contare su di te.

Avrebbe voluto baciarla, ma in tempo di isolamento non era il caso che si lasciasse andare in slanci d’affetto. Mentre Marina tornava alla sua postazione di lavoro Piergiorgio non poté fare a meno di radiografare il fondoschiena parlante su cui sperava di far morire, un giorno non troppo remoto, la sua mano.

La soddisfazione di averla resa felice per la prima volta durò il tempo delle scale, perché Gargamella sbraitava al telefono con la farmacista. I DPI sarebbero rimasti un sogno.

— Caposala, con che cosa ci proteggeremo dall’infezione? Arriveranno molti casi. Se raggiungiamo solo il 10% dei numeri della Lombardia siamo fottuti, lo sai?

— Ti rispondo in italiano così mi capisci: con una beata minchia!

— A me serve una FFP3.

— E per fare che?

— Fatti miei.

— Non ce n’è! — Gargamella non reggeva più lo stress. Ad ogni richiesta scattava come una molla.

— Ma possono lasciarci morire in questo modo?

— Ti ricordo che durante la seconda guerra mondiale ci hanno mandato in Russia con le scarpe di cartone. Ti meravigli se non abbiamo tute in Tyvek e mascherine FFP3?

— A me ne non me frega niente delle tute, mi serve una mascherina.

— Compratela in ferramenta!

Forse con Marina non avrebbe fatto cattiva figura. L’avrebbe conquistata. In tempo di coronavirus una FFP3 è più accattivante di un mazzo di rose rosse. Si allontanò senza degnare Gargamella di uno sguardo e si fiondò nella stanza del medico di guardia, lontano da orecchie indiscrete. Da quel guaio poteva tirarlo fuori solo il suo amico scrittore Edoardo. Compose il numero. Al terzo squillo rispose.

— Amico mio.

— Stai disturbando la mia ispirazione… — il tono sprezzante di Edoardo voleva significare solo una cosa: era in fase creativa.

— Scusa, ma è una cosa vitale.

— Sto scrivendo una scena importante del sequel del mio romanzo. Questi cinesi non mi avranno mai!

— Smettila con queste cazzate delle teorie complottiste. Nessuno vuole bloccare il tuo estro creativo. A proposito, come hai deciso di intitolare il secondo romanzo della tua saga?

— L’asiatica sulla scrivania.

— Originale.

— È un romanzo erotico a sfondo sociale. Ha alla base la lotta della società contro il vilipendio dei virus. Ma tu non puoi capire, del resto infili aghi nella schiena della gente e tubi tra le corde vocali.

— Ho bisogno di un favore. — Piergiorgio andrò dritto al sodo.

— Sono tuo amico, anche se mi hai tradito non leggendo il mio romanzo.

— Vai in ferramenta e compra una FFP3. — Piergiorgio ignorò l’offesa dell’amico.

— Una mascherina?

— Sì. Ma bada bene che sia FFP3.

— Ok.

— Fammi sapere se ne trovi. Vanno a ruba. In ospedale non ne abbiamo e la farmacia non sappiamo se ne fornisce.

— Consideralo fatto. In casa ne ho sei confezioni da cento.

— Cosa?

I quattro peli castani sul cranio di Piergiorgio si drizzarono.

— Con questo romanzo sfiderò i potenti del mondo e metterò in discussione le loro certezze. Ho pensato che dovevo proteggermi dai loro attacchi. Dopo il COVID19 ci sarà il COVID20. Devo essere pronto.

— Hai 600 mascherine a casa?

Piergiorgio immaginò il ghigno di soddisfazione dell’amico all’altro capo del telefono.

— Mettimene una da parte. Non fare lo stronzo.

— Ti aspetto dopo il lavoro, ma ora fammi lavorare. Ho molto da fare.

Piergiorgio stava per liberare il carattere calabrese fumantino, ma la chiamata per un cesareo di urgenza lo riportò al dovere.

Al Sisalvichipuò Hospital i tagli cesarei erano come le ciliegie: uno tirava l’altro. E per un anestesista di provincia che si rispetti erano pane quotidiano. Non ebbe il tempo di riagganciare la chiamata proveniente dal reparto di ostetricia che sentì urla provenienti dal complesso operatorio.

— Un cesareo. Un ceareoooooooooo.

Era Aida Sguaitamatti.

— Ma è urgente-urgente? C’è bradicardia? Sanguina?

— No.

— Ma che urgenza è? — chiese Piergiorgio.

La voce di gallina di Aida riempì l’antisala.

— Il cesareo è urgente. Vedi? Ti ho fatto il foglio — asserì la ginecologa, sbattendo la cartella sulla scrivania dell’accettazione. — E sul cesareo devi stare zitto. Decido io. Tu lo sai chi sono io?

— Una gallina che urla! — rispose Piergiorgio.

— Come ti permetti.

— Senti, io ti ho solo detto che la situazione non è così urgente da fare sto casino. Siamo in tempo di coronavirus e la dovreste smettere con le finte urgenze programmate dal giorno prima!

— La signora è già pronta, digiuna da ieri sera — affermò Aida Sguaitamatti, trotterellando.

— Ah certo! Hai visto che mi prendi in giro? È programmata e me la passi d’urgenza!

Piergiorgio girò i tacchi e si diresse verso l’accettazione. In tutti gli ospedali d’Italia l’anestesista era considerato lo zerbino. Ma i tempi stavano cambiando. Se si fosse trovato a decidere chi intubare o no per carenza di posti, avrebbe preferito la dottoressa Apnea alla Sguaitamatti. E con questo pensiero aveva esplicitato quanta stima nutriva nella ginecologa.

— Sbrigati! Non perdere tempo. — Aida continuava a urlare.

— Devo visitarla, far firmare il consenso. Stai calma e non urlare.

— Tu, dico a te! — La ginecologa si rivolse all’infermiera.  — Il tavolo è pronto? Hai avvisato il Nido?

Piergiorgio rideva di sottecchi. La verità era una: Aida Sguaitamatti sarebbe stata una vittima, ma il coronavirus le sarebbe stato lontano, acida per com’era. A lei ci avrebbe pensato il ben più temibile cacazzo!

#4 Muta da sub

Piergiorgio odiava lavorare la domenica, innanzitutto perché gli toccava il turno di dodici ore, dalle otto alle venti, con annessa reperibilità notturna dalle venti alle otto. Ma anche perché l’ufficio ticket era chiuso e non avrebbe potuto scambiare due chiacchiere con Marina, la bionda fausa sulle cui labbra avrebbe voluto perdere i sensi. Ma una domenica sì e l’altra pure, vista la carenza cronica di rianimatori, dettata dalle scelte scellerate della politica, si ritrovava ad abbronzarsi con le scialitiche con chirurghi di ogni specie alle calcagna. E mentre l’on. Curcuruto di Forza Calabria pranzava con la famiglia e meditava nuovi metodi per prendere in giro i cittadini e ficcargliela senza lubrificante nel didietro, i rianimatori, animati dal senso del dovere e sostenuti da un giuramento, si facevano in quattro per non abbandonare i pazienti. Piergiorgio si scagliò contro Ippocrate: ma se proprio voleva giurare, perché non giurava solo lui anziché scassare la minchia a tutti i medici nei secoli dei secoli?

Ma i cari onorevoli, provenienti da commissioni, scuole di pensiero e maestri diversi, non avevano capito (o facevano finta di non capire) che la sanità calabrese era già allo sbando prima del cornonavirus. Solo che fino al cinque marzo nessuno si era mai accorto di quanto fossero importanti gli anestesisti-rianimatori: sottopagati, sfruttati, e con la dignità sotto le scarpe.

Piergiorgio salì le scale che dall’UTIC lo portavano direttamente in Rianimazione. Aveva una Marlboro spenta all’angolo della bocca e la testa incassata nel piumino. Era quasi primavera, ma le temperature si mantenevano fresche persino in Calabria.

Gargamella lo accolse con la solita risata accogliente e ironica.

— Te la sei portata la mascherina da casa?

Piergiorgio sfoggiò trentasei denti perfetti e senza degnarlo di una parola, si fiondò in cucina a fumare. Sentiva la necessità di nicotina.

— Per la modica cifra di ottantacinque euro ho comprato una bella mascherina FFP3 — disse.

Gargamella si passò la mano sulla pelata e si trattenne dal commentare.

— Inutile che stai zitto, lo so che pensi che con ottantacinque euro ti facevi una bella mangiata di pesce. Ma ieri sera sono andato in farmacia e mi sono accaparrato l’ultima all’asta. Sai com’è? Per la salute…

— Noto che il periodo ha provocato una piccola maggiorazione sui costi — ironizzò Gargamella.

Finita la prima, Piergiorgio accese la seconda Marlboro. Nello stesso tempo di avvicinò alla moka e iniziò a prepararla.

— Te le sei lavate le mani? — chiese Gargamella.

Piergiorgio disse: — Il caffè è bollito, il virus muore.

— Perché non hai la mascherina chirurgica? — lo incalzò il caposala.

— Perché stamattina ho lavato i denti col Betadine e poi perché il fumo uccide il virus.

— Fossero tutti parsimoniosi come te, avremmo mascherine chirurgiche in abbondanza. 

— Finalmente è arrivata la fornitura — disse compiaciuto Piergiorgio dopo aver acceso il fornello a induzione.

Gargamella rise di gusto. — Se si può chiamare fornitura… un pacco di mascherine chirurgiche.

— E dopo le scarpe di cartone, ci danno le fionde… — Piergiorgio avrebbe preso per il collo l’on. Curcuruto e gli avrebbe fatto rimangiare tutte le bugie che raccontava agli elettori.

— Il tuo amico… sì… il politico della tua città. Come si chiama?

— Curcuruto. — Esatto. Proprio lui. L’uomo copertina.

— Ha dichiarato che la Calabria è pronta, che la nostra rianimazione passerà da quattro a otto posti e che il conoronavirus non ci spaventa, che si è interessato personalmente con l’assessore regionale alla sanità per ottenere i DPI.

— Hai visto? Siamo a posto. — Piergiorgio tolse la moka dalla caffettiera e si versò una dose generosa di caffè.

— Ne vuoi? — chiese, rivolto a Gargamella.

Il caposala lo guardò torvo. — Leva le mani. Ognuno si versa il suo!

Il cacazzo da coronavirus ormai dilagava.

Piergiorgio non ebbe il tempo di terminare la sigaretta. La sirena del 118 risvegliò il pronto soccorso, che sonnecchiava senza troppo da fare. Il suo sesto senso che si stesse per scontrare con una supercazzola gli provocò una scarica di adrenalina. Inconsciamente si drizzò sulla sedia. Non passò nemmeno un minuto che il telefono della rianimazione squillò. Si trattava di un’anziana, sospetto COVID19. Il coronavirus era arrivato anche al Sisalvichipuò Hospital. Anche se quell’ospedale di provincia non era stato individuato come COVID, era naturale che i pazienti infetti sarebbero arrivati anche lì, peccato però che i DPI languivano.

Gargamella tirò fuori una tuta in TNT.

— Ma non doveva essere in Tyvek?

— O questa, o niente.

Piergiorgio si vestì e imbracò di tutto punto. Scafandrato, sembrava un astronauta pronto ad andare sulla luna. Aveva percorso solo pochi gradini, ma già era un bagno di sudore. Il facciale filtrante (che aveva comprato in farmacia) gli impediva di respirare bene, la tuta lo impacciava nei movimenti, la visiera protettiva gli riduceva la vista.

Ma a Piergiorgio non importava. Era nato per essere un rianimatore. Era il suo compito ed era pronto.

La vecchietta era con altissima probabilità un COVID. Il tampone era partito appena la paziente aveva messo piede in ospedale. Piergiorgio aveva capito a occhio che la situazione era torbida. Aveva fatto ciò che era giusto: intubazione oro-tracheale e ventilazione meccanica, in attesa degli esami strumentali e dell’esito del tampone, che sarebbe stato dirimente per indirizzarla verso il policlinico di Catanzaro, dichiarato dalla regione centro COVID di riferimento. Ma senza l’esito del tampone sarebbe rimasto in pronto soccorso nella stanza dedicata e isolata.

Erano le ventuno quando Piergiorgio alzò lo sguardo verso l’orologio della sala rossa. Si appoggiò su una sedia. La vescica pulsava sul basso ventre, assomigliava ormai alla testa glabra di Gargamella. Sorrise sotto la FFP3 per la battuta che gli era venuta in mente nonostante lo sconforto che lo assaliva. Era rinchiuso nello scafandro da dodici ore e una sacrosanta pisciata se la sarebbe fatta, ma visto che la tuta era l’unica disponibile, come avrebbe potuto indossarla di nuovo? La mascherina era diventata un tutt’uno con la sua faccia. La barba prudeva. Gocce di sudore scivolavano dalla fronte e sugli occhi, rendendo difficile vedere.  

Buio. Pensava al domani e vedeva solo una coltre fuligginosa. Quando sarebbe arrivata la primavera per allontanare la bruma del mattino? Un solo pensiero lo tirò su di morale: i cannelloni di nonna Veronica. Ne avrebbe fatto una scorpacciata appena arrivato a casa. Sempre se avesse avuto l’opportunità di togliere quella maledetta tuta. In quell’istate aveva capito perché in ospedale i DPI scarseggiavano. Era tutto a beneficio degli operatori sanitari: non avrebbero sofferto per ore e ore rinchiusi in quella sauna. Ogni istante sembrava non trascorrere. L’orologio alla parete sembrava fermo sempre alle ventuno.

Alle sei e dodici minuti del mattino (venti ore dopo l’esecuzione del tampone) sbucò dal corridoio la testa di Ciccino Sampei, l’infermiere del Pronto soccorso che era rimasto a dargli una mano (a distanza).

— Positivo, dottore! — disse, con addosso l’apprensione di una famiglia a casa da cui tornare. Il volto sorridente dell’infermiere era un marchio di fabbrica, ma la pandemia aveva spento ogni voglia di ironia, nutrendo la paura negli angoli nascosti dell’animo umano.

— E ora che si fa? — chiese Piergiorgio, stremato.

— Mi metto la divista e arrivo. Il posto è al policlinico di Catanzaro.

— Ma non lo trasferisce il 118? — urlò Piergiorgio da sotto la tutta. La sua voce rimbombava.

— No, dicono che loro non si muovono. Sono tutti impegnati.

Piergiorgio imprecò contro la costellazione di Orione, l’Orsa Maggione e anche la Stella Polare.

— Ma i protocolli? Le procedure? Gli accordi? Le riunioni?

— Tempo perso, duttureddu! Siamo in guerra. E n’amu arranciari!

Ciccino aveva ovviato alla carenza di DPI: si era portato da casa la sua muta da pesca.

Piergiorgio rise a crepapelle, tanto da farsela sotto (e non era una battuta).  

— Imbracato così anche il coronavirus si spaventa!

— Dottore, solo questa ho. E non mi lascia scoperto in nessuna parte del corpo. Guardi. — Ciccino si esibì in una piroetta.

— Ti mancano le pinne! — Piergiorgio non ce la faceva a stare serio. Sarebbe morto il giorno esatto in cui avesse smesso di ridere. Un altro schizzo di pipì alleggerì il suo ventre dolente.  

Pronti, partenza e via.

Arrivarono a Catanzaro, dove pareva che le cose funzionassero meglio del Sisalvichipuò Hospital.

Era mezzanotte quando finalmente Piergiorgio svuotò la vescica. Era in un bagno di sudore quando uscì dalla toilette del policlinico. Adocchiò un distributore automatico, avrebbe avuto bisogno di due litri di acqua, ma non ebbe il tempo di fare due passi. Tutto divenne bianco.

La vita gli passò davanti insieme alle tempeste che lo avevano sbattuto come un relitto sugli scogli. Se ripensava a quello che aveva visto e vissuto, il domani non poteva che riservargli solo bellezza. Ma proprio quando la primavera sembrava essere arrivata prepotente nel suo animo, era sopraggiunto lui: il virus made in china.

Duttureddu, duttureddu… — Ciccino lo schiaffeggiava con violenza.

Piergiorgio aprì gli occhi. Alla vista dell’infermiere, li richiuse.

— Sono vivo, ma ti giuro che se me ne dai un’altra mi alzo e ti prendo a calci in culo fino a casa.

Avrebbe preferito le labbra rosso fuoco di Marina e i suoi occhioni ambrati, ai riccioli sporchi e sudati di Ciccino.

— Torniamo a casa — disse Piergiorgio.

Il Salvichipuò Hospital di lunedì mattina profumava di casa. Evitò di passare davanti allo sportello dell’ufficio ticket, non voleva che Marina lo vedesse in quello stato pietoso. Ma non si può sfuggire al destino e quando varcò la soglia della porta scorrevole d’ingresso lei era lì, al bar. Accanto a lei c’era Umberto Desiderio, famoso per i suoi corteggiamenti senza freni. Il volto già stanco di Piergiorgio si increspò ancora di più, amplificando il solco sulla fronte.

Umberto, vestito di tutto punto con una camicia griffata e il camice bianco lindo e profumato, si atteggiava con la splendida Marina, che quel giorno sembrava più bella del solito.

Piergiorgio non riuscì a trattenere l’indole sanguigna e l’embolo partì senza possibilità di bloccarlo. Si avvicinò ai due. Sembrava Mohamed Alì.

— Scusate se interrompo la vostra colazione, ma non siete a un metro di distanza.

Umberto si voltò senza parlare, contrariato. Di certo Marina doveva essere difficile da conquistare: era la strafiga del Sisalvichipuò e le sbavavano dietro fior di uomini pronti a lasciare le famiglie per un posto nel suo cuore.

— Scusa?

— Hai capito bene. Allontanati!

Il tono di Piergiorgio non ammetteva repliche.

Marina restò in silenzio ad osservare la scena, mentre i due uomini lanciavano saette dagli occhi. Poi intervenne: — Ha ragione Piergiorgio. Torno a lavoro. — Indossò la mascherina e si diresse all’ufficio ticket. Il fondoschiena della donna, fasciato in un vestitino blu aderente, iniziò a cantare la nona di Beethoven e la giornata di Piergiorgio iniziò a illuminarsi.

Nello stesso istante l’on. Curcuruto se ne stava sbracato nella sua piscina privata coperta con un Moscow Mule in mano e l’i-phone nell’altra. Controllava i commenti dell’ultimo post su Facebook. La sua foto mentre arringava al palazzo della regione faceva veramente effetto. E sotto il messaggio criptico: Sto lavorando per voi. Fatti, non pugnette! c’eranoduemilatrecento “mi piace” e commenti da tifo da stadio. Li aveva conquistati tutti con quattro puttanate. Anzi no… li aveva presi per il culo!

© Antonino Genovese

#3 Aida Sguaitamatti e l’urgenza programmata in tempo di coronavirus

Il conoravirus avrebbe causato molte vittime, di questo ormai Piergiorgio ne era certo. Ma al di là degli infetti e delle polmoniti intrattabili, molti sarebbero finiti sotto le grinfie dei becchini per una patologia tanto diffusa quanto misconosciuta: il cacazzo.

Anche Piergiorgio se la faceva sotto dalla paura. Non solo per quella di infettarsi e di finire con un tubo in gola a causa delle venti (dichiarate) sigarette al giorno, ma soprattutto lo inquietava il terrore di non potersi recare da Nonna Veronica, che lo riempiva di prelibatezze. Il freezer già iniziava a svuotarsi e, se l’isolamento continuava, sarebbe finita a mozzarella e scatolette. Altro che parmigiana di melenzane. I suoi addominali erano in pericolo. Ma meditava un piano b: nonna Veronica poteva tranquillamente lasciare i manicaretti da congelare nell’ascensore, evitando di correre il rischio di infettarsi. Senza la sua pancia da rianimatore non si sentiva se stesso. Avrebbe fatto questo sacrificio per tutelare l’immagine di tutta la categoria. Si ripromise di chiamarla nel momento in cui i viveri fossero davvero ridotti all’osso. Meglio non rischiare la salute della nonna. Si sarebbe rimesso in carreggiata una volta fronteggiata la pandemia.

Piergiorgio, come ogni sacrosanto giorno, varcò la soglia del Sisalvichipuò Hospital, ma quella mattina trovò una bella novità: nella stanzetta del timbro si entrava uno alla volta e bisognava mantenere un metro di distanza gli uni con gli altri. Dopo dieci minuti di attesa sfoderò il cartellino e iniziò ufficialmente il turno sotto gli occhi della dottoressa Gianna Apnea, il direttore sanitario di presidio fresca di nomina, premiata per le sue grandi qualità… sotto la scrivania dell’On. Curcuruto prima e dell’assessore regionale alla sanità dopo. Senza considerare le male lingue che urlavano a gran voce un suo passaggio sotto lo scrittoio (piccolo, ma comodo) del direttore generale. La dottoressa Apnea, mascherina sotto il naso, occhialino da professoressa e capello fresco di piega (con le parrucchiere chiuse Piergiorgio non si capacitava di cotanta ostentata perfezione) vigilava sul rispetto della distanza di sicurezza con un bastone lungo un metro.

— Dottore Morfina, dov’è la sua mascherina? Perché ne è sprovvisto?

La voce sgradevole lo riportò alla realtà, trascinandolo via dal sogno che stava facendo: la tavola cunzata a casa di Nonna Veronica.

— Direttore, buongiorno. Non credo che il mio reparto sia fornito di mascherine in abbondanza. Se ne troverò una, la indosserò.

— Oggi sono arrivate ben cinquanta mascherine. Non si lamenti e rispetti le regole.

Piergiorgio annuì. Non aveva voglia di iniziare il turno polemizzando.

Si voltò e squadrò la dottoressa Apnea: non si sarebbe fatto sfiorare nemmeno con un dito, né sotto, ma tantomeno sopra la scrivania.

Arrivato alla fine del corridoio, anziché continuare dritto verso la scala che lo avrebbe condotto in Rianimazione, svoltò a destra per passare dinanzi all’ufficio ticket. Marina era lì, seduta alla sua postazione. La osservava. Era bella. Una bionda (fausa) con occhi da cerbiatta. Non riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. La donna era impegnata a discutere con una paziente gravida che doveva fare una visita in intramoenia con la sua collega ginecologa Aida Sguaitamatti, ricercatissima dalle pazienti, ma da evitare come la peste per il suo scarso appeal con i libri universitari: non li aveva mai aperti.

Quando Marina alzò gli occhi dalle scartoffie i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri. Piergiorgio sentì che le gambe gli stavano crollando. Quando lei gli regalò un sorriso, lui alzò la mano destra e la salutò. Stava per tornare indietro e imboccare il corridoio per raggiungere il suo reparto, ma si sentì chiamare. — Dottore, dottore.

Piergiorgio si voltò. Era lei. Ebbe il dubbio che si stesse riferendo proprio a lui. Un anestesista che veniva chiamato “dottore” era cosa insolita. Ma i tempi stavano cambiando.

— Sì… sì… sono io.

Piergiorgio, cazzuto, cinico e stronzo rianimatore, iniziò a tentennare e si meravigliò di se stesso: non era da lui.

— Dottore Morfina, lei è un anestesista?

— Sono rianimatore, sì.

Piergiorgio non apprezzava essere etichettato come quello che addormentava e svegliava i pazienti. Il suo lavoro era ben altro. Definirsi rianimatore lo faceva sentire più figo, specie in tempo di coronavirus.

— Volevo chiederle una cortesia.

— Certo, ma a una condizione. Non sono poi così vecchio. Diamoci del tu e mi sentirò meno in imbarazzo.

— Certo, certo — disse Marina. Le sue guance si imporporarono.

— Come ti posso aiutare?

Marina si avvicinò al suo orecchio e Piergiorgio approfittò della vicinanza per assaporare il suo profumo. Ne fu subito certo: si trattava di Bottega Veneta. Il suo olfatto non mentiva mai. Poteva riconoscere ogni tipo di fragranza.

— Puoi procurarmi una mascherina FFP3?

Piergiorgio si sentì preso in contropiede. Ipotizzava altro: una cena in un locale romantico (post isolamento), un viaggio all’Allianz Stadium a vedere la Juventus (post riapertura campionati), una passeggiata in riva al mare (le spiagge il premier Conte le aveva chiuse o no?).

— Veramente… non penso che ne abbiamo… forse una… o due…

Il volto angelico di Marina si rabbuiò. Un velo di delusione le adombrò lo sguardo.

— Ma non ti preoccupare. Te ne procurerò una. Per me niente è impossibile.

Il sorriso carico di fiducia della donna ristabilì il suo equilibrio con l’universo.

— Grazie, Piergiorgio. Sapevo di poter contare su di te.

Avrebbe voluto baciarla, ma in tempo di isolamento non era il caso che si lasciasse andare in slanci d’affetto. Mentre Marina tornava alla sua postazione di lavoro Piergiorgio non poté fare a meno di radiografare il fondoschiena parlante su cui sperava di far morire, un giorno non troppo remoto, la sua mano.

La soddisfazione di averla resa felice per la prima volta durò il tempo delle scale, perché Gargamella sbraitava al telefono con la farmacista. I DPI sarebbero rimasti un sogno.

— Caposala, con che cosa ci proteggeremo dall’infezione? Arriveranno molti casi. Se raggiungiamo solo il 10% dei numeri della Lombardia siamo fottuti, lo sai?

— Ti rispondo in italiano così mi capisci: con una beata minchia!

— A me serve una FFP3.

— E per fare che?

— Fatti miei.

— Non ce n’è! — Gargamella non reggeva più lo stress. Ad ogni richiesta scattava come una molla.

— Ma possono lasciarci morire in questo modo?

— Ti ricordo che durante la seconda guerra mondiale ci hanno mandato in Russia con le scarpe di cartone. Ti meravigli se non abbiamo tute in Tyvek e mascherine FFP3?

— A me ne non me frega niente delle tute, mi serve una mascherina.

— Compratela in ferramenta!

Forse con Marina non avrebbe fatto cattiva figura. L’avrebbe conquistata. In tempo di coronavirus una FFP3 è più accattivante di un mazzo di rose rosse. Si allontanò senza degnare Gargamella di uno sguardo e si fiondò nella stanza del medico di guardia, lontano da orecchie indiscrete. Da quel guaio poteva tirarlo fuori solo il suo amico scrittore Edoardo. Compose il numero. Al terzo squillo rispose.

— Amico mio.

— Stai disturbando la mia ispirazione… — il tono sprezzante di Edoardo voleva significare solo una cosa: era in fase creativa.

— Scusa, ma è una cosa vitale.

— Sto scrivendo una scena importante del sequel del mio romanzo. Questi cinesi non mi avranno mai!

— Smettila con queste cazzate delle teorie complottiste. Nessuno vuole bloccare il tuo estro creativo. A proposito, come hai deciso di intitolare il secondo romanzo della tua saga?

— L’asiatica sulla scrivania.

— Originale.

— È un romanzo erotico a sfondo sociale. Ha alla base la lotta della società contro il vilipendio dei virus. Ma tu non puoi capire, del resto infili aghi nella schiena della gente e tubi tra le corde vocali.

— Ho bisogno di un favore. — Piergiorgio andrò dritto al sodo.

— Sono tuo amico, anche se mi hai tradito non leggendo il mio romanzo.

— Vai in ferramenta e compra una FFP3. — Piergiorgio ignorò l’offesa dell’amico.

— Una mascherina?

— Sì. Ma bada bene che sia FFP3.

— Ok.

— Fammi sapere se ne trovi. Vanno a ruba. In ospedale non ne abbiamo e la farmacia non sappiamo se ne fornisce.

— Consideralo fatto. In casa ne ho sei confezioni da cento.

— Cosa?

I quattro peli castani sul cranio di Piergiorgio si drizzarono.

— Con questo romanzo sfiderò i potenti del mondo e metterò in discussione le loro certezze. Ho pensato che dovevo proteggermi dai loro attacchi. Dopo il COVID19 ci sarà il COVID20. Devo essere pronto.

— Hai 600 mascherine a casa?

Piergiorgio immaginò il ghigno di soddisfazione dell’amico all’altro capo del telefono.

— Mettimene una da parte. Non fare lo stronzo.

— Ti aspetto dopo il lavoro, ma ora fammi lavorare. Ho molto da fare.

Piergiorgio stava per liberare il carattere calabrese fumantino, ma la chiamata per un cesareo di urgenza lo riportò al dovere.

Al Sisalvichipuò Hospital i tagli cesarei erano come le ciliegie: uno tirava l’altro. E per un anestesista di provincia che si rispetti erano pane quotidiano. Non ebbe il tempo di riagganciare la chiamata proveniente dal reparto di ostetricia che sentì urla provenienti dal complesso operatorio.

— Un cesareo. Un ceareoooooooooo.

Era Aida Sguaitamatti.

— Ma è urgente-urgente? C’è bradicardia? Sanguina?

— No.

— Ma che urgenza è? — chiese Piergiorgio.

La voce di gallina di Aida riempì l’antisala.

— Il cesareo è urgente. Vedi? Ti ho fatto il foglio — asserì la ginecologa, sbattendo la cartella sulla scrivania dell’accettazione. — E sul cesareo devi stare zitto. Decido io. Tu lo sai chi sono io?

— Una gallina che urla! — rispose Piergiorgio.

— Come ti permetti.

— Senti, io ti ho solo detto che la situazione non è così urgente da fare sto casino. Siamo in tempo di coronavirus e la dovreste smettere con le finte urgenze programmate dal giorno prima!

— La signora è già pronta, digiuna da ieri sera — affermò Aida Sguaitamatti, trotterellando.

— Ah certo! Hai visto che mi prendi in giro? È programmata e me la passi d’urgenza!

Piergiorgio girò i tacchi e si diresse verso l’accettazione. In tutti gli ospedali d’Italia l’anestesista era considerato lo zerbino. Ma i tempi stavano cambiando. Se si fosse trovato a decidere chi intubare o no per carenza di posti, avrebbe preferito la dottoressa Apnea alla Sguaitamatti. E con questo pensiero aveva esplicitato quanta stima nutriva nella ginecologa.

— Sbrigati! Non perdere tempo. — Aida continuava a urlare.

— Devo visitarla, far firmare il consenso. Stai calma e non urlare.

— Tu, dico a te! — La ginecologa si rivolse all’infermiera.  — Il tavolo è pronto? Hai avvisato il Nido?

Piergiorgio rideva di sottecchi. La verità era una: Aida Sguaitamatti sarebbe stata una vittima, ma il coronavirus le sarebbe stato lontano, acida per com’era. A lei ci avrebbe pensato il ben più temibile cacazzo!

© Antonino Genovese