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#10 E’ primavera, Piergiorgio

Quando si arriva in fondo a una storia l’emozione è forte per ciò che si è provato nel percorso che ha condotto alla fine. Questo racconto a puntate mi ha permesso di scavare dentro il mio animo e di sfogare ansie e preoccupazioni, ma anche di divertirmi insieme a Piergiorgio ed Edoardo. Molti di voi mi chiedono chi sia Marina, o Gargamella, o gli altri personaggi di questa storia. Preciso che è tutto frutto di fantasia, che non esiste nessuno di loro o forse sono tutti reali! Di vero ci sono i sentimenti che hanno condotto alla fine, che probabilmente è solo l’inizio.

Dedico il capitolo 10 a Clara, nata il 7 aprile 2020 alle ore 21.48 e ai miei amici Pietro e Teresa. Grazie, Clara, per avermi fatto superare le mie paure.

Se non fosse stato per l’improvviso rialzo delle temperature, Piergiorgio non si sarebbe accorto che la primavera era arrivata.

Il mondo girava senza percepire ciò che stava accadendo. Era il sette aprile e sembrava un giorno come un altro. Trascorrevano tutti uguali, inesorabili. La vita era cambiata. Molte aziende erano sull’orlo della bancarotta. La popolazione soffriva e aveva fame. E non c’è niente di più pericoloso di un popolo affamato. Al sud una buona fetta dei cittadini viveva di lavori in nero, retribuito a giornata, ma le restrizioni dello Stato non consentivano nemmeno di uscire di casa, figurarsi andare a lavorare.

Piergiorgio attraversò il marciapiede, quando una volante della Polizia di Stato lo accostò.

— Buongiorno. — Il poliziotto abbassò il finestrino e lo squadrò dai capelli (pochi rimasti) ai piedi. Era un cinquantino con le spalle di Sylvester Stallone, i bicipiti di Arnlod Schwarzenegger e la pancia di Bud Spencer.

— Buongiorno.

Dove sta andando? — chiese, con in volto stampato il ghigno di chi ha beccato un altro trasgressore.

— In ospedale.

— Se ha la febbre non può.

— Non ho la febbre, sto bene.

— Potrebbe essere asintomatico.

— Non sono malato.

— E allora mi dia un documento. Lei sta commettendo un illecito. — Il poliziotto aprì lo sportello e fece per uscire dall’abitacolo con fare minaccioso.

— Io sono un rianimatore.

Il tempo si fermò.

— Come ha detto? — chiese il poliziotto, con gli occhi sgranati.

— Ha sentito bene: sono un R I A N I M A T O R E.

— E dove lavora?

— Al Sisalvichipuò.

— Mi scusi se l’ho importunata e mi scusi se le sto facendo perdere tempo. Vada pure e buon lavoro.

Il poliziotto salì sull’Alfa d’ordinanza.

— Se vuole le mostro il tesserino.

— No, vada vada. Anzi la scortiamo noi con la sirena.

— Non è necessario. Non c’è traffico.

— Insisto.

— Faccia come crede, ma…

Non ci fu verso. Piergiorgio raggiunse l’ospedale a bordo della sua utilitaria, preceduto dalla Polizia a sirene spiegate.

Il 2020 era stata la svolta per i rianimatori. Piergiorgio entrò in ospedale camminando sulle acque, a discapito dei vangeli.

Al Sisalvichipuò Hospital il tempo trascorreva inesorabile, mentre l’on. Curcuruto, nella sua villa con capitelli d’oro intarsiati e piscina olimpionica, sparava minchiate a raffica sui social network, adescando folle impazzite, desiderose di mettere like e di commentare in un italiano da quinta elementare ogni genere di notizia.

Il dottor Muccalapuni nel frattempo percorreva il perimetro della sua stanza, attendendo la nomina a direttore di dipartimento. Non avrebbe mai più detto di no all’on. Curcuruto, suo intimo amico: calzoni calati e culo a ponte, nei secoli dei secoli. Amen.

Piergiorgio era silenzioso. Guardava lo Smartphone. Marina non rispondeva ai suoi sms. Era irritata per quanto accaduto il giorno prima con Uberto Desiderio e il repentino soccorso che gli aveva negato. Ma alla fine dei conti il risultato era stato una pantomima da premio Oscar alla faccia di Benigni. La messa in scena era stata orchestrata per conquistare il cuore di Marina, ma era finita male. Piergiorgio era riuscito a spuntarla, ma la bionda fausa era un osso duro. Aveva un caratterino indomito e aveva bisogno di tempo per sbollire l’incazzatura. Non poteva nemmeno abbonirla con un mazzo di fiori, perché qualcuno aveva rubato le rose che la sua vicina di casa curava nel giardino. Era anche uscito un articolo su 24calarialive che alludeva a un ladro impavido che addormentava i cani per derubare i fiori. L’isolamento era anche questo: follia!

Marina era il culo più bello del Sisalvichipuò ed era sua: proprietà privata di Piergiorgio Morfina, anestesista-rianimatore del Sisalvichipuò Hospital. Il primo che l’avesse sfiorata con lo sguardo, sarebbe finito a testa sutta e pedi all’aria.

Lo Stromboli fumante era lo spettacolo che si vedeva dalle finestre della rianimazione. Quel panorama mozzafiato era stato il motivo principale per cui Piergiorgio aveva scelto come sede del contratto a tempo indeterminato Pizzo Calabro. Ma quella scelta gli aveva regalato Marina. E tanto bastava per renderlo il rianimatore più ricco del mondo.

Cazzeggiava sui social e fumava una Marlboro attraverso la mascherina chirurgica, mentre si sentiva nella poesia “Soldati” di Ungaretti: Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie. Nonostante fuori la primavera imperversava impertinente, lui si sentiva in bilico, pronto a rischiare la sua salute e quella dei suoi cari per un virus bastardo.

In quel momento arrivò il primo sms, ma lo ignorò. C’era l’isolamento e tutti inviavano catene di S.Antonio e vignette che lo facevano piangere anziché ridere.

Poi un altro sms.

E un altro.

Alla fine il telefono squillò. Era Edoardo, il suo amico scrittore.

— Come è andata?

— Cosa?

— La poesia, rimbambito!

— Bene. Sei stato fantastico. Poi dovrai dirmi a chi erano realmente dedicati quei versi.

— Sono uno scrittore maledetto e non so cosa sia l’amore — precisò Edoardo.

— Puoi far credere quello che vuoi e metterti la maschera che preferisci, ma non insultare la mia intelligenza. Tu sei innamorato perso! — Piergiorgio allentò la mascherina. Non la sopportava più.

— C’è una donna che mi piace, sì… è vero… ma… è gravida!

— Minchia! Sei nella merda, amico mio!

— E me lo hai tenuto nascosto! — Piergiorgio saltò dalla sedia. Accese l’ennesima sigaretta della giornata e fu assalito dalla voglia di bere. Quello sì che era uno scoop!

— E che dovevo fare? Non avresti capito… ma ora anche tu hai il cuore nello zucchero!

— Siamo due diabetici inguaribili! — disse Piergiorgio.

Poi risero.

— Ti chiamavo per una cortesia.

— Certo. Spara!

— Lei si chiama Sara, ha ventisette anni. Per ora è sopra. Ha dolore. Dilatazione 3 cm, collo appianato.

— E tu? Dove sei?

— Che domande fai! Ho un po’ di tosse e non mi fanno entrare. Sono asserragliato in casa!  — Il tono di voce di Edoardo si incupì.

Piergiorgio aspirò forate dalla sigaretta. Poteva solo immaginare lo stato d’animo del suo amico.

— Dovresti salire sopra e falle quella stregoneria che sapete fare voi rianimatori.

— Cosa?

— La partoanalgesia.

— Ma noi qui non la facciamo, siamo pochi, non possiamo… ci siamo sempre rifiutati…

— Non te lo chiederei se non fosse importante per me.

Piergiorgio non esitò. Spense la cicca nel posacenere, poi disse: — Va bene, amico mio!

L’ostetricia era al terzo piano. Piergiorgio evitò di incrociare Nadia Canotto, sarebbe stata una peridurale ficcata chissà dove. Si imbatté in una giovane moretta con i capelli a caschetto (che se la tirava manco fosse Madonna) di cui non ricordava il nome. 

— Ciao, sono qui per…

— Per?

— … una mia amica…

— Come si chiama?

Come minchia si chiamava? Nemmeno il cognome si era fatto dire da Edoardo.

Prese lo smartphone e stava per comporre il numero, ma il suo amico era stato più lesto e lo aveva informato tramite sms

— Sara Addis — disse Piergiorgio, dopo essersi rassettato la maglietta nera, che lo snelliva di una taglia.

— Sì, mi segua.

— Gradirei fare l’analgesia in travaglio di parto.

La moretta lo guardò, dopo essersi fermata in mezzo al corridoio.

— Ma lei lo sa che non ne facciamo perché quelli come voi non hanno mai dato il benestare perché sotto organico?

Come darle torto.

— Sì… lei ha ragione… però… questa è una mia amica.

— Ancora peggio! Ancora peggio! Una raccomandata! —  La moretta iniziò a martoriarsi i capelli.

— Senti, me la fai fare o no?

— Faccia quello che vuole!

Sara Addis era una grandissima scassaminchia e non comprendeva come Edoardo se ne fosse innamorato. Si lamentava per la vena, per la peridurale, per il dolore, persino per la gravidanza.

— Cosa nasce? — chiese Piergiorgio per rompere il ghiaccio.

— Una femminuccia.

— E come la chiamerà?

— Artemide.

— Come mai?

— Chiedilo al tuo amico!

— Lui è fissato con i miti greci. Lo so…

Sara Addis era sola. Purtroppo anche le nascite avevano subito una netta secessione tra ciò che si faceva prima della pandemia e ciò che si faceva dopo. Niente fiori e regali, ma soprattutto niente stanza piena di gente che bacia e accarezza puerpera e prole. Niente prosecco (ma solo perché Edoardo era taccagno) e niente familiari fuori.  Artemide sarebbe nata con la sua mamma e al nido non la avrebbe vista nessuno.

La peridurale andò bene. Per Piergiorgio fu una delle migliori partoanalgesie che avesse mai fatto. Ci aveva messo tutta l’attenzione possibile.

— Grazie, Edoardo ha un amico speciale.

Piergiorgio sorrise e mosse piccoli passi verso l’uscita. Una delle cose che lo facevano commuovere erano i parti. Piccole creature che prendono vita. Per un istante avrebbe voluto essere ostetrico, chissà che ebrezza tenere in braccio quei marmocchi morbidi intrisi di purezza. Artemide che ne poteva sapere della pandemia?

In quel momento si sentì chiamare. Era l’ostetrica.

— La prenda in braccio.

Piergiorgio tremava. Era freddo, cinico e stronzo, ma dinanzi al mistero della nascita tornava il mammalucco imbambolato davanti a Marina. Allungò le braccia e la strinse a sé. Era piccola e morbida. Lacrime calde gli rigarono le guance, mentre fuori lo Stromboli iniziava a mormorare. Quella nascita rappresentava la speranza di quel domani che sarebbe stato per lui la felicità che aveva sempre sognato e inseguito, ma che non aveva mai colto.

Lo smartphone squillò. Era un sms che recitava: ti amo. Anche un carattere indomito come quello della bionda poteva essere mitigato dal sentimento più grande che esiste: l’amore.

Si specchiò negli occhi nocciola della piccola Artemide e vide dentro il suo domani: mano nella mano con Marina, mentre dinanzi a loro l’orizzonte non sembrava per niente distante. 

E non ebbe più paura.

FINE

© Antonino Genovese

#2 Teorie complottiste

La sensazione che provava ogni volta che si trovava al Sisalvichipuò Hospital era la stessa dal 2014, quando per la prima volta aveva varcato la soglia del piccolo ospedale di provincia di cui si era innamorato: era a casa.  Piergiorgio non amava i grandi numeri degli ospedali di città. Le gerarchie dei Policlinici non facevano per lui che era sempre stato d’indole libera e poco incline alle regole. Ma da quando era scoppiata la pandemia e la gente moriva, non si sentiva al sicuro. Il premier aveva parlato alla nazione, emanando un DCPM restrittivo che aveva messo le ganasce persino al suo amico scrittore-mantenuto Edoardo, il quale era stato costretto ad annullare il mega evento letterario per la presentazione del suo libro porno-erotico “La dottoressa se la fa in ambulatorio”, che il regista Rocco Siffredi aveva già opzionato per un film che sarebbe stato girato entro la primavera del 2021. 

Non riusciva a rinunciare alle vecchie abitudini, non tanto perché non riusciva a privarsi di ciò che faceva da anni, ma per la sua indole scaramantica. Alla colazione al “Bar Mario” con Edoardo non avrebbe rinunciato. Ne valeva della buona sorte del turno.

Caffè ristretto amaro come il veleno, mezza ciambella fritta senza zucchero e sigaretta.

— Sono le sette e mezza. A che ora monti? — chiese Edoardo, alto e dinoccolato. Con l’indice riposizionò gli occhiali da sole alla radice del naso a patata. Proprio non ne volevano sapere di stare al proprio posto.

— Alle otto. Mi fai la stessa domanda da cinque anni.

— Sì, ma porta bene. O no?

Piergiorgio si toccò in mezzo alle gambe. Il gesto non passò inosservato ai pochi avventori, che lo guardarono schifati. Era poco galante, ma un turno in pace era molto meglio delle occhiate malevole della gente.

— Speriamo.

— Posso farti una domanda personale? — chiese Edoardo, dopo aver ingurgitato il caffè in un unico sorso.

Piergiorno annuì

— Ma perché continuiamo a fare colazione in questo bar schifoso?

— Perché porta bene.

— Ah sì, allura paga tu, e prepara un posto in rianimazione che mi hanno avvelenato!

Piergiorno accese la Marlboro. E siamo alla terza, pensò. Di questo passo il pacchetto non sarebbe arrivato a sera.

I pochi coraggiosi che prendevano ancora il caffè al bar si scansavano gli uni dagli altri, respiravano poco e parlavano ancora meno. Piergiorgio si diresse a rapide falcate verso l’ospedale. Erano le otto meno dieci e non era sua abitudine dare il cambio in ritardo.

— Secondo me questo è un virus creato in laboratorio per distruggere l’occidente — disse Edoardo.

— Sì, come no…

— Te lo dico io! Questi cinesi vogliono affossarci.

— Secondo te siamo una potenza economica che fa paura? Ma dai… ti facevo più intelligente.

Edoardo afferrò il gomito di Piergiorgio, che sobbalzò. Da giorni ormai i contatti umani e le manifestazioni d’affetto erano bandite.

— Ci sono! Il mio best-seller.

Piergiorgio si staccò dalla presa e riprese a camminare verso l’ospedale senza dargli conto.

— La scena con l’asiatica!

— Non ti seguo.

— Hai letto o no il mio libro? — Edoardo si piazzò dinanzi all’amico, impedendogli di proseguire

— Non tutto… sai… insomma…

Edoardo si accigliò.

— Non ti offendere. È un porno! E anche poco originale.

— Poco originale! Tu non capisci niente di libri!

— Sì, ma… insomma… non so che c’entra l’asiatica.

— Stanno boicottando il lancio del mio libro. Io sarei diventato famoso… capisci? La pandemia è un pretesto per tarparmi le ali da scrittore. Persino Rocco si è interessato al testo, sta già scrivendo la sceneggiatura.

— Sono certo che era interessato ai dialoghi! — ironizzò Piergiorgio, poi riprese a camminare.

— Tu puoi non credermi, ma si tratta di un complotto internazionale.

— Sì, ma stai a casa. Non uscire e non fare stupidaggini. Se il coronavirus dilaga, siamo persi.

— Vedrai che è solo un’influenza. Una bolla di sapone… — Edoardo minimizzò, come era suo solito fare.

— Spero che sia come dici tu. Mentre tu studi bene la scena con l’asiatica, io vado a lavorare. Il Sisalvichipuò ha bisogno di me.

— Sei fissato con questo ospedale. In fondo sono quattro mura, un tetto, siringhe, sale operatorie…

— Forse per te, per me è… casa.

Edoardo non sapeva che lì dentro, presente tutti i giorni dietro il vetro dell’ufficio ticket, c’era Marina, la donna che con i suoi capelli biondi, il suo sorriso smagliante e, soprattutto, un fondoschiena parlante, lo aveva stregato fin dalla prima volta che ci era andato a sbattere contro.

Le cose non erano andate come sperava e quella mattina Marina era nascosta in qualche sgabuzzino recondito a sbrogliare scartoffie. Il sole che brillava dentro il Sisalvichipuò era offuscato. Aveva l’impressione che la primavera fosse rimasta fuori ad aspettare un invito, come un ragazzo di troppo quando si fanno le squadre al campo dell’oratorio. Per un attimo tornò adolescente, mentre calcava i campi di calcio sterrati e il sogno di diventare il nuovo Roberto Baggio, solo che a stroncare tutto era stata una torsione di troppo del ginocchio e i legamenti saltati per aria. Anche se di Baggio aveva avuto solo il codino, perché i piedi erano storti come una quercia piegata al vento, inutile negare l’evidenza. Al destino non si scappa e così a vent’anni aveva capito che doveva rimettersi a studiare. Aveva conosciuto il suo maestro in un maggio assolato, mentre fuori i suoi coetanei correvano dietro sogni irrealizzabili, lui si era innamorato di un laringoscopio e un tubo da mettere in mezzo alle corde vocali. Ed era stato amore. Piergiorgio sentiva di essere nato per quello: l’umo per gli altri.

Salì i gradini con mille pensieri e una Marlboro spenta all’angolo della bocca. Aprì la porta del reparto. Un lungo corridoio collegava il complesso operatorio alla Rianimazione. Lo accolse il caposala Gargamella. Occhi spiritati dentro un cranio calvo. Le occhiaie di chi non dorme da molti giorni. Una sigaretta appena rollata. Due orecchie a parabola piegate sotto il peso di un paio di occhiali del dopoguerra. Sembrava un gatto pronto a scattare: pelo arricciato e artigli allerta.

— Mettiti la mascherina. — Lo rimproverò.

— Ma sei impazzito?

Piergiorgio non lo riconosceva più. Il Coronavirus aveva trasformato lo scanzonato Gargamella.

— Fuori c’è la morte. Lo capisci? La morte. E noi non abbiamo percorsi. Non abbiamo DPI. Ho tirato fuori tutto quello che era utile in farmacia e sai che ho trovato?

Piergiorgio fece segno di no con la testa.

— Una beata minchia!

Gargamella si allontanò e dopo pochi passi si esibì in un saltello nervoso.

— Anziché scassarmi la minchia come fai da sei anni a questa parte… il primario dov’è?

Piergiorgio non ottenne risposta, ma le discussioni in cucina lo informarono con abbondanza di dettagli (al settanta percento inventati) degli ultimi eventi di reparto cui lui non era a conoscenza.

Il dottor Muccalapuni soffriva di ipertrofia prostatica cronica. Andava a pisciare ogni venticinque minuti, cascasse il mondo. E tramite l’onorevole Curcuruto aveva ottenuto un appuntamento dal dott. De Tubis, luminare del settore prostatico. In pratica nel mondo potevano solo… inchinarsi a lui. Ma le liste d’attesa si allungavano, specie per chi, come Orazio Muccalapuni, aveva il braccino corto e preferiva una scorciatoia politica a sborsare le duecentocinquanta euro più iva di visita intramoenia. Così l’esponente di spicco di Forza Calabria, nonché sponsor politico della sua nomina a primario, era riuscito ad ottenere un appuntamento a ufo per il 24 febbraio 2020. Ma De Tubis non sembrava tipo da sottomettersi a un politico, specie se della Terronia, così per un capriccio aveva rinviato il consulto per il 27 febbraio, in piena emergenza corunavirus. Muccalapuni al rientro dalla zona rossa della Lombardia si era rinchiuso in quarantena a casa con la sua giovane e generosa terza moglie, lasciando allo sbando più totale i rianimatori del Sisalvichipuò.

— Quindi se mi arriva un COVID che faccio? — chiese Piergiorgio.

— Prega — rispose Gargamella, sghignazzando.

Sistemeranno tutto. Non ci lasceranno in balia della tempesta, pensò Piergiorgio. Ma più che una certezza era una recondita speranza in fondo al suo animo.

— Compà. — Entrò in cucina, mantenendo la distanza di sicurezza, l’altro maschio del reparto: Pippo Buddacio.

— Ehi. — Piergiorgio non aveva voglia di sfoderare la sua ironia. Tra la sottile cefalea, residuo della bevuta della sera prima, e la paura che iniziava a montare per una pandemia che bussava alle porte del suo ospedale, la voglia di scherzare l’aveva lasciata fuori dalla porta della Rianimazione.

— Amico mio, quante ferie residue hai? — sussurrò, dopo averlo fatto uscire dalla stanza in cui gli altri colleghi ironizzavano sulle prestazioni sessuali di Muccalapuni.

— Dovrei controllare il cartellino… saranno novanta giorni.

— Ho trovato il modo per levarci da questo posto per quattordici giorni. — Gli occhi azzurri di Pippo saettavano, febbrili. I riccioli brizzolati crescevano incolti e bizzarri, così come la barba, lasciata allo stato brado.

— Il direttore sanitario ha revocato le ferie — disse Piergiorgio, ripetendolo a se stesso per interiorizzare il concetto.

— Ho un piano.

Piergiorgio avvicinò l’orecchio destro alla mascherina di Pippo.

— Ci serve un bambino positivo. I bambini sono vettori, ma sono asintomatici. Ne individuiamo uno di una casa di pazienti infetti. Lo blocchiamo, facciamo due tamponi e li mandiamo a nome nostro. Risulteremo positivi e ci mollano a casa quattordici giorni. Che ne dici?

— Pippo, ascolta, quant’è che non scopi?

— Come? Scopare? Che vuoi dire?

— Hai capito, quant’è che non stai con una donna?

Un tic nervoso si slatentizzò sull’occhio destro di Pippo.

— Fatti una scopata e levati dalla testa queste follie.

Pippo si sfregò le mani, poi si allontanò da Piergiorgio. La testa si muoveva sincrona con i passi, compiendo piccoli scatti ritmici sulla destra.

— Scopare, scopare — mormorava Pippo.

Già. E io quant’è che non sento l’odore di una donna? Pensò Piergiorgio.

Il pensiero tornò a Marina. Una giornata senza vederla era priva di significato. Anche un cinico, freddo e stronzo rianimatore come lui era stato colpito dalla freccia di cupido?

©Antonino Genovese

#1 Fino a trenta giorni fa

Lamelle di luce fastidiose iniziavano a scassargli la minchia, ma la sveglia non suonava. L’i-phone stazionava silenzioso e immobile sul comodino, come un alunno che conosce bene l’ira dell’insegnante per un movimento sbagliato durante la lezione. Si illuminava per i continui sms, notifiche e mail. Ma muto era e muto restava. Sapeva già che rischiava l’exitus. Era già traballante con uno schermo spaccato a metà. Se avesse suonato un minuto prima del previsto il suo destino era segnato.

O era arrivata la primavera in anticipo, o qualcuno dall’alto (e non era la ninfomane del piano di sopra) aveva deciso di farlo alzare con la luna storta, oppure le stagioni si erano sovvertite. Ultima teoria era la forza gravitazionale. Si era spostato durante il sonno dalla sua classica posizione a faccia in giù quel tanto che bastava affinché la luce stuzzicasse le sue palpebre.

Fatto sta che la lamella di luce lo aveva colpito esattamente nel suo punto debole e aveva preso a spallate Morfeo, che ancora lo cullava.

Guardò il cellulare con un occhio ancora impastato dal sonno e l’altro invece sveglio e pimpante. Il gruppo degli anestesisti-rianimatori “Al peggio non c’è mai fine” del Sisalvichipuò Hospital segnava settantadue sms.

— Minchia — disse. Stropicciò l’occhio ancora chiuso, poi cercò il pacchetto di Marlboro e ne accese una, seduto in mezzo al letto.

Iniziò a spulciare gli sms.

—Minchia! — ripeté, allungando la “a” finale.

Il premier Conte si era svegliato. Era il 5 marzo e il virus cinese che impestava il nord era davvero pericoloso e il consiglio dei ministri aveva deciso di mettere in stand-by l’Italia.

— Ve ne siete accorti solo ora, eh?

Si alzò, dopo aver scacciato le coperte. Mise i piedi a terra e non trovò le pantofole. La bocca era impastata per la bevuta colossale della sera prima. Con il suo amico Edoardo, scrittore e mantenuto, si erano scolati l’intero DOP. Un vuoto di memoria non gli consentì di collegare l’ultimo sorso di Vodka con il suo ingresso a casa. La testa sfrigolava come una vecchia locomotiva. Passò in cucina e ingollò un antiinfiamamtorio. La doccia era l’unico rimedio per darsi una svegliata prima del turno di lavoro. Appena il getto dell’acqua calda lo investì la sveglia iniziò a squillare.

— Coronavirus del cazzo, mi revocheranno le ferie!

Già, le ferie. Le aspettava dall’estate, quando era stato obbligato a consumare i giorni di allontanamento anestesiologico. Trattava da mesi con il suo primario per avere sette giorni di riposo e, nonostante il suo cartellino segnasse centoventidue giorni arretrati, sembrava quasi che gli facesse una cortesia.

— C’è carenza, dobbiamo garantire i LEA, ne vale della salute dei cittadini — gli ripeteva il suo primario, il dott. Muccalapuni, basso, tracagnotto e malato cronico di ipertrofia prostatica, culo e camicia col direttore sanitario aziendale e grande leccaculo dell’On Tony Curcuruto, esponente di spicco di Forza Calabria.

L’acqua lo riportò alla realtà e alla pandemia che presto avrebbe colpito anche il suo piccolo ospedale in provincia di Vibo Valentia, il Sisalvichipuò Hospital, incastonato tra Serra San Bruno e le spiagge di Pizzo.

— I LEA… la salute… la MINCHIA! Alla prima virgola fuori posto mi denunciano tutti: pazienti infami! — disse a voce alta, guardandosi allo specchio.

Si asciugò quei quattro peli che gli erano rimasti sulla testa, in compenso una barba folta e nera lo rendeva stronzo e impossibile.

“Anestesisti in grande affanno” era il titolo di uno dei numerosi articoli che girava sui social network.

— Fino a ieri eravamo gli specialisti più sfigati e adesso siamo i più gettonati dello stivale. Nemmeno medici eravamo considerati… ma andate a fanculo!

Accese la seconda Marlboro, si accomodò sul water e continuò a spulciare lo smartphone.

— Fino a trenta giorni fa non conoscevo nemmeno il mio nome. Adesso sono il più figo dell’ospedale. Allora mi presento: sono Piergiorgio Morfina e, indovinate? Sono un Anestesista-Rianiamatore!

©Antonino Genovese