#5 Una FFP3 è per sempre

Dopo ventiquattrore di lavoro sotto stress Piergiorgio desiderava solo dormire: spaccare il letto fino a farsi venire mal di schiena. Ma la stanchezza era troppa. Era rimasto per ore seduto in mezzo a letto con la compagnia delle sue fidate Marlboro. Il pacchetto scivolava via, una sigaretta dopo l’altra. Aveva provato a leggere persino il libro scritto da una coppia di blogger/influencer che cantavano, sparavano minchiate, si interrogavano sulla fine dell’universo, ma, nonostante fossero inetti e presuntuosi, li vedeva su tutti i canali tv ed erano ospiti in radio, ma soprattutto alzavano fior di euro senza fare una mazza. Il libro era a colori e cartonato, ma soprattutto venduto alla modica cifra di venticinque euro. Le pagine erano piene zeppe d’immagini in alta definizione che ritraevano questi due minchioni che non facevano altro che raccontare la loro vita. Si può sapere che se ne fanno i lettori di ciò che facevano durante il giorno? Le cinquecentomila copie vendute e il boom al botteghino per il loro film di Natale dimostravano che l’italiano medio era analfabeta e preferiva un influencer a Moravia.

Piergiorgio non era un grande lettore, ma se proprio ne aveva voglia, andava pazzo per le storie noir. E allora come mai teneva quel libro (chiamiamolo così giusto per identificare il bene, ma i libri sono altra cosa)? Piergiorgio era stitico e quindi con due paginette al mattino, svuotava l’intestino senza colpo ferire. Quel pomeriggio, mentre le campane della parrocchia suonavano i rintocchi delle quindici, provava a utilizzarlo come sonnifero, ma ottenne invece l’effetto per cui era stato acquistato: una telefonata intercontinentale sul water.

Si vestì di tutto punto, piazzò sulle orecchie gli elastici della mascherina chirurgica e approfittò della giornata assolata per fare due passi: fanculo il DCPM. Edoardo abitava a due isolati di distanza e aveva bisogno di vederlo per recuperare l’FFP3 con cui avrebbe conquistato il cuore di Marina.

La sera prima, mentre lui scorrazzava in ambulanza vestito come un astronauta, il premier Conte aveva chiuso anche i bar e tutte le attività commerciali ad eccezione di farmacie e supermercati. Sarebbe stata dura, ma di fame non sarebbero morti.

Nel tragitto che da casa lo conduceva dall’amico, non incontrò anima viva, ad eccezione di una BMW serie 6 nera fiammante, che sfrecciava sulla nazionale.  Riconobbe subito Umberto Desiderio alla guida: toscano in bocca e l’aria da chi non ha bisogno di niente e nessuno.

— Coglione, — disse a voce a alta, rivolgendosi alla strada ormai deserta, — se mi capiti sotto mano, non ti intubo!

Al solo pensiero che Umberto potesse insidiare la sua Marina gli prese un nervoso che dai capelli raggiunse la punta dei piedi. Accese l’ennesima Marlboro e iniziò a sbuffare come la raffineria di Milazzo. La prima cosa che suscitò la BMW di Umberto fu un chiodino d’acciaio. Lasciò i neuroni liberi di circolare senza freni e immaginò la sua mano che teneva nascosto un simpatico chiodino dalla testa tonda e l’estremità affilata, poi sognò di passare accanto all’automobile di Umberto. L’immagine finale di una bella linea retta sulla carrozzeria nera luccicante lo fece sorridere. Dopo ore di tachicardia e malessere, il groppo in gola si allentò. Ma a farlo star meglio ci pensò anche il suo amico scrittore Edoardo, che, affacciato al balcone del primo piano, riguardava un dattiloscritto, stringendo una stilo in mano.

—Ehi, scrittore! — gridò Piergiorgio.

Edoardo si sporse.

— Amico – rianimatore. Sei venuto per la mascherina?

— Apri il portone e accendi la macchinetta del caffè, non dormo da più di ventiquattrore e sono un cane pronto ad azzannare.

Edoardo si toccò la tempia con l’indice più volte.

— Sei tutto scemo! Se da un normale cittadino sto lontano un metro… con te rischio di infettarmi anche al telefono.

— Ma che dici? Apri questa porta!

— Aspetta…

Edoardo entrò in casa. Piergiorgio si avvicinò al portoncino d’ingresso, aspettando lo scatto della serratura. Trascorsero i minuti e, visto che dall’interno dell’abitazione non si udiva alcun rumore, si accomodò sullo scalino d’ingresso e accese una Marlboro.

— Piergiorgio! — disse Edoardo, — dove sei finito?

— Mi hai lasciato fuori! Che combini?

Edoardo, attrezzato di tutto punto, mise in un cestino di vimini un paio di guanti, un bicchierino di caffè, un cioccolatino fondente e una mascherina FFP3.

— Non dire che non sono ospitale.

Piergiorgio imprecò contro la Cina, i cinesi e pure coreani, giapponesi e tutto il sudest asiatico.

— Al caffè col mio miglior amico non posso rinunciare. E poi lo sai?

Piergiogio lo guardò con aria interrogativa.

— Sei un rianimatore e se fino a ieri eri l’ultima ruota del carro, adesso potrei aver bisogno di te.

— Lo dici perché te la fai sotto dalla paura, — disse Piergiorgio, mentre indossava i guanti.

— C’è una pandemia…

— Domani avrete dimenticato e tornerete a riempire il culo a mediocri chirurghi e ginecologi affamati di denaro… e noi torneremo a lavorare nell’ombra. In fondo facciamo parte della medicina dei servizi.

— Sei perspicace, amico mio! Tornerete dalla fogna da cui vi avevamo lasciato 30 giorni fa. La serva, serve. — Edoardo sorrise.

Piergiorgio terminò il caffè, tolse i guanti e riprese a fumare. Poi chiese: — Che mi dici del nuovo romanzo?

— Sono a buon punto. Alla base di tutto il mio lavoro c’è la denuncia del complotto cinese contro i libri di un giovane scrittore.

— Tu sei pazzo!

— Vedrai… sarà un best seller!

— Notizie dal regista?

— Il primo libro è opzionato, si parla di un cast d’eccezione.

— Ah si… anticipami qualcosa, domani potrei essere con un tubo in gola e non apprenderei la tua ascesa nel mondo editoriale che conta.

— Sei pronto? Siediti che c’è da avere le vertigini.

— Più che altro le vertigini mi stanno venendo a furia di guardarti dal basso verso l’alto.

— Cicciolina… un grande ritorno per il cinema di genere.

— Scusami, ma non era tutto incentrato sull’asiatica?

— Dettagli, amico mio! Dettagli! Ci sono prospettive in cui gli occhi a mandorla non si noteranno!

Piergiorgio era indeciso se ridere o piangere.

— Se lo dici tu… io vado da Marina a portarle la mascherina!

Edoardo si sporse dal balcone. — Marina! Hai una love story e non mi dici niente?

— Non c’è niente, tranquillo… altrimenti lo avresti saputo!

— Dai… a me puoi dirlo… nemmeno una toccatina di minne?

— Guarda che a me questa ragazza piace assai!

— Marina… aspetta… è la tipa dell’ufficio ticket?

Piergiorgio annuì.

— La bionda fausa col culo che parla?

— Smettila, ti prego… almeno con la donna che mi interessa.

— Sì, scusa. Posso dirti una cosa?

— Certo.

— Hai preso un bel muro di faccia, amico mio. Per non commentare il lato b di una donna, questa ti deve aver preso le budella e le ha riempite di farfalle svolazzanti.

Piergiorgio annuì.

— Ho bisogno una mano. Tu sei uno scrittore… puoi buttare giù una poesia?

— Vuoi recitargliela sotto casa?

— Perchè no?

Piergiorgio salutò l’amico, che, dopo avergli promesso una poesia da manuale del romanticismo, rimase a osservarlo dal balcone del primo piano. I rapporti umani, le strette di mano, l’affetto e le pacche sulle spalle erano un ricordo lontano… il virus made in Cina aveva smantellato tutto.

Piergiorgio tornò a casa, salì sulla sua utilitaria in riserva, e raggiunse casa di Marina, che abitava poco distante dalle assolate spiagge di Vibo Marina. Non sapeva quale fosse il suo appartamento, così iniziò a girovagare nelle palazzine. Dopo quasi un’ora di ricerca trovò il campanello giusto: voleva farle una sopresa! Grazie al centralinista, Mimì Gazzettino, che sapeva tutto di tutti era riuscito a farsi dare l’indirizzo di Marina. Peccato che non gli avesse dato alcuna indicazione sull’interno esatto.

Suonò il campanello e una donna si affacciò al balcone. Ormai il portone non lo apriva più nessuno. I capelli lunghi e scuri le raggiungevano le spalle. Gli occhi erano nascosti dietro un paio di occhiali da sole impenetrabili. Il naso aquilino le conferiva l’aspetto austero da professoressa cacacazzo. Indossava un abito lungo: sembrava Santa Maria Goretti. Le ricordava la sua docente di Latino e Greco del liceo.

— Desidera? — La donna parlava con il muso stretto e il naso all’insù.

— Cercavo Marina.

— Lei chi è?

— Sono un collega. Marina è in casa?

— Non sono fatti suoi. Vorrei sapere come mai è qui?

— Devo parlare con Marina, se non è in casa proverò a ripassare.

In quell’istante uscì un’altra donna. Era fasciata in un abito elegante beige. Piergiorgio pensò che stesse andando a una festa.

— Chi è questo tizio? — chiese. Il tono era straniero, ma Piergiorgio non riuscì a identificarne la provenienza.

— Un collega di Marina — rispose la professoressa, sempre se lo fosse.

— E che vuole?

— Scusate se mi intrometto, ma Marina è in casa? E soprattutto voi chi siete?

— Giovanotto, — esordì la mora, — io mi chiamo Caterina, sono la sorella di Marina, e insegno Storia e Filosofia al Liceo.

Questa è ancor più cacacazzo di quella di Latino e Greco, pensò Piergiorgio.

— E io sono la migliore amica di Marina: duchessa Elizabeth III di Gluecity.

Mizzica, una dama inglese. Piergiorgio si diede uno schiaffo. Di certo erano allucinazioni. Quelle due sembravano uscite da un cartone animato.

— Si identifichi.

— Sono Piergiorgio Morfina, rianimatore.

Le due donne si guardarono all’unisono ed entrambe mostrarono una dentatura perfetta e un sorriso smagliante.

— Perchè non l’ha detto prima? Un rianimatore… che bello! — asserì Elizabeth, mentre rassettava la frangia bionda cenere, che le copriva la fronte.

— Vuole che le chiami Marina? — chiese la professoressa.

— Se possibile, le sarei grata, miss… — Piergiorgio si esibì in un inchino che rappresentava una presa per i fondelli.

— Come mai la cerca, Sir Morfina? — chiese Elizabeth.

— Ho una mascherina da consegnarle.

— FFP3? — chiese la dama inglese, sopresa.

Piergiorgio annuì.

— Deve amarla veramente tanto. Lei lo sa che una FFP3 è per sempre?

Piergiorgio arrossì.

In quel momento Marina si affacciò al balcone. Bella come il sole d’inverno. Forte come le onde del mare in tempesta. I capelli si muovevano morbidi, sollecitati da una leggera brezza marina.

— Ciao Piergiorgio! Mi hai trovato!

— Eh sì.

— Come mai?

— Ho la tua FFP3.

Marina portò le due mani alla bocca.

— Non avrei mai pensato che tu potessi compiere questo meraviglioso gesto nei miei riguardi.

— Figurati… non è niente. Posso invitarti a cena quando il conoravirus se ne tornerà dal buco da cui è venuto fuori? Magari possiamo incontrarci con un po’ più di privacy…

— Sono una donna fortunata, ho ricevuto ben due inviti a cena in meno di ventiquattr’ore.

Piergiorgio la guardò stranita

— Posso sapere chi è l’altro pretendente?

— Ieri al bar del Sisalvichipuò Umberto Desiderio è stato più veloce di te.

Il volto di Piergiorgio si rabbuiò. L’operazione chiodino d’acciaio diventava sempre più una questione di vitale importanza.

— Umberto è un caro amico.

— Ah sì? Non lo sapevo…

Caro amico. Chissà che voleva dire: caro?

— Ci conosciamo da anni. Siamo già stati parecchie volte a cena insieme…

Piergiorgio lasciò correre il discorso. Desiderava soltanto rinchiudersi a casa e meditare la vendetta. Salutò le sentinelle, che durante tutta la discussione erano rimaste a osservarlo.

—  La mascherina te la lascio giù nelle scale…

— Sei stato molto carino. Non lo dimenticherò.

Che voleva dire che erano andati a cena insieme? E soprattutto c’era stato o no il dopo cena?

© Antonino Genovese

#4 Muta da sub


Il conoravirus avrebbe causato molte vittime, di questo ormai Piergiorgio ne era certo. Ma al di là degli infetti e delle polmoniti intrattabili, molti sarebbero finiti sotto le grinfie dei becchini per una patologia tanto diffusa quanto misconosciuta: il cacazzo.

Anche Piergiorgio se la faceva sotto dalla paura. Non solo per quella di infettarsi e di finire con un tubo in gola a causa delle venti (dichiarate) sigarette al giorno, ma soprattutto lo inquietava il terrore di non potersi recare da Nonna Veronica, che lo riempiva di prelibatezze. Il freezer già iniziava a svuotarsi e, se l’isolamento continuava, sarebbe finita a mozzarella e scatolette. Altro che parmigiana di melenzane. I suoi addominali erano in pericolo. Ma meditava un piano b: nonna Veronica poteva tranquillamente lasciare i manicaretti da congelare nell’ascensore, evitando di correre il rischio di infettarsi. Senza la sua pancia da rianimatore non si sentiva se stesso. Avrebbe fatto questo sacrificio per tutelare l’immagine di tutta la categoria. Si ripromise di chiamarla nel momento in cui i viveri fossero davvero ridotti all’osso. Meglio non rischiare la salute della nonna. Si sarebbe rimesso in carreggiata una volta fronteggiata la pandemia.

Piergiorgio, come ogni sacrosanto giorno, varcò la soglia del Sisalvichipuò Hospital, ma quella mattina trovò una bella novità: nella stanzetta del timbro si entrava uno alla volta e bisognava mantenere un metro di distanza gli uni con gli altri. Dopo dieci minuti di attesa sfoderò il cartellino e iniziò ufficialmente il turno sotto gli occhi della dottoressa Gianna Apnea, il direttore sanitario di presidio fresca di nomina, premiata per le sue grandi qualità… sotto la scrivania dell’On. Curcuruto prima e dell’assessore regionale alla sanità dopo. Senza considerare le male lingue che urlavano a gran voce un suo passaggio sotto lo scrittoio (piccolo, ma comodo) del direttore generale. La dottoressa Apnea, mascherina sotto il naso, occhialino da professoressa e capello fresco di piega (con le parrucchiere chiuse Piergiorgio non si capacitava di cotanta ostentata perfezione) vigilava sul rispetto della distanza di sicurezza con un bastone lungo un metro.

— Dottore Morfina, dov’è la sua mascherina? Perché ne è sprovvisto?

La voce sgradevole lo riportò alla realtà, trascinandolo via dal sogno che stava facendo: la tavola cunzata a casa di Nonna Veronica.

— Direttore, buongiorno. Non credo che il mio reparto sia fornito di mascherine in abbondanza. Se ne troverò una, la indosserò.

— Oggi sono arrivate ben cinquanta mascherine. Non si lamenti e rispetti le regole.

Piergiorgio annuì. Non aveva voglia di iniziare il turno polemizzando.

Si voltò e squadrò la dottoressa Apnea: non si sarebbe fatto sfiorare nemmeno con un dito, né sotto, ma tantomeno sopra la scrivania.

Arrivato alla fine del corridoio, anziché continuare dritto verso la scala che lo avrebbe condotto in Rianimazione, svoltò a destra per passare dinanzi all’ufficio ticket. Marina era lì, seduta alla sua postazione. La osservava. Era bella. Una bionda (fausa) con occhi da cerbiatta. Non riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. La donna era impegnata a discutere con una paziente gravida che doveva fare una visita in intramoenia con la sua collega ginecologa Aida Sguaitamatti, ricercatissima dalle pazienti, ma da evitare come la peste per il suo scarso appeal con i libri universitari: non li aveva mai aperti.

Quando Marina alzò gli occhi dalle scartoffie i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri. Piergiorgio sentì che le gambe gli stavano crollando. Quando lei gli regalò un sorriso, lui alzò la mano destra e la salutò. Stava per tornare indietro e imboccare il corridoio per raggiungere il suo reparto, ma si sentì chiamare. — Dottore, dottore.

Piergiorgio si voltò. Era lei. Ebbe il dubbio che si stesse riferendo proprio a lui. Un anestesista che veniva chiamato “dottore” era cosa insolita. Ma i tempi stavano cambiando.

— Sì… sì… sono io.

Piergiorgio, cazzuto, cinico e stronzo rianimatore, iniziò a tentennare e si meravigliò di se stesso: non era da lui.

— Dottore Morfina, lei è un anestesista?

— Sono rianimatore, sì.

Piergiorgio non apprezzava essere etichettato come quello che addormentava e svegliava i pazienti. Il suo lavoro era ben altro. Definirsi rianimatore lo faceva sentire più figo, specie in tempo di coronavirus.

— Volevo chiederle una cortesia.

— Certo, ma a una condizione. Non sono poi così vecchio. Diamoci del tu e mi sentirò meno in imbarazzo.

— Certo, certo — disse Marina. Le sue guance si imporporarono.

— Come ti posso aiutare?

Marina si avvicinò al suo orecchio e Piergiorgio approfittò della vicinanza per assaporare il suo profumo. Ne fu subito certo: si trattava di Bottega Veneta. Il suo olfatto non mentiva mai. Poteva riconoscere ogni tipo di fragranza.

— Puoi procurarmi una mascherina FFP3?

Piergiorgio si sentì preso in contropiede. Ipotizzava altro: una cena in un locale romantico (post isolamento), un viaggio all’Allianz Stadium a vedere la Juventus (post riapertura campionati), una passeggiata in riva al mare (le spiagge il premier Conte le aveva chiuse o no?).

— Veramente… non penso che ne abbiamo… forse una… o due…

Il volto angelico di Marina si rabbuiò. Un velo di delusione le adombrò lo sguardo.

— Ma non ti preoccupare. Te ne procurerò una. Per me niente è impossibile.

Il sorriso carico di fiducia della donna ristabilì il suo equilibrio con l’universo.

— Grazie, Piergiorgio. Sapevo di poter contare su di te.

Avrebbe voluto baciarla, ma in tempo di isolamento non era il caso che si lasciasse andare in slanci d’affetto. Mentre Marina tornava alla sua postazione di lavoro Piergiorgio non poté fare a meno di radiografare il fondoschiena parlante su cui sperava di far morire, un giorno non troppo remoto, la sua mano.

La soddisfazione di averla resa felice per la prima volta durò il tempo delle scale, perché Gargamella sbraitava al telefono con la farmacista. I DPI sarebbero rimasti un sogno.

— Caposala, con che cosa ci proteggeremo dall’infezione? Arriveranno molti casi. Se raggiungiamo solo il 10% dei numeri della Lombardia siamo fottuti, lo sai?

— Ti rispondo in italiano così mi capisci: con una beata minchia!

— A me serve una FFP3.

— E per fare che?

— Fatti miei.

— Non ce n’è! — Gargamella non reggeva più lo stress. Ad ogni richiesta scattava come una molla.

— Ma possono lasciarci morire in questo modo?

— Ti ricordo che durante la seconda guerra mondiale ci hanno mandato in Russia con le scarpe di cartone. Ti meravigli se non abbiamo tute in Tyvek e mascherine FFP3?

— A me ne non me frega niente delle tute, mi serve una mascherina.

— Compratela in ferramenta!

Forse con Marina non avrebbe fatto cattiva figura. L’avrebbe conquistata. In tempo di coronavirus una FFP3 è più accattivante di un mazzo di rose rosse. Si allontanò senza degnare Gargamella di uno sguardo e si fiondò nella stanza del medico di guardia, lontano da orecchie indiscrete. Da quel guaio poteva tirarlo fuori solo il suo amico scrittore Edoardo. Compose il numero. Al terzo squillo rispose.

— Amico mio.

— Stai disturbando la mia ispirazione… — il tono sprezzante di Edoardo voleva significare solo una cosa: era in fase creativa.

— Scusa, ma è una cosa vitale.

— Sto scrivendo una scena importante del sequel del mio romanzo. Questi cinesi non mi avranno mai!

— Smettila con queste cazzate delle teorie complottiste. Nessuno vuole bloccare il tuo estro creativo. A proposito, come hai deciso di intitolare il secondo romanzo della tua saga?

— L’asiatica sulla scrivania.

— Originale.

— È un romanzo erotico a sfondo sociale. Ha alla base la lotta della società contro il vilipendio dei virus. Ma tu non puoi capire, del resto infili aghi nella schiena della gente e tubi tra le corde vocali.

— Ho bisogno di un favore. — Piergiorgio andrò dritto al sodo.

— Sono tuo amico, anche se mi hai tradito non leggendo il mio romanzo.

— Vai in ferramenta e compra una FFP3. — Piergiorgio ignorò l’offesa dell’amico.

— Una mascherina?

— Sì. Ma bada bene che sia FFP3.

— Ok.

— Fammi sapere se ne trovi. Vanno a ruba. In ospedale non ne abbiamo e la farmacia non sappiamo se ne fornisce.

— Consideralo fatto. In casa ne ho sei confezioni da cento.

— Cosa?

I quattro peli castani sul cranio di Piergiorgio si drizzarono.

— Con questo romanzo sfiderò i potenti del mondo e metterò in discussione le loro certezze. Ho pensato che dovevo proteggermi dai loro attacchi. Dopo il COVID19 ci sarà il COVID20. Devo essere pronto.

— Hai 600 mascherine a casa?

Piergiorgio immaginò il ghigno di soddisfazione dell’amico all’altro capo del telefono.

— Mettimene una da parte. Non fare lo stronzo.

— Ti aspetto dopo il lavoro, ma ora fammi lavorare. Ho molto da fare.

Piergiorgio stava per liberare il carattere calabrese fumantino, ma la chiamata per un cesareo di urgenza lo riportò al dovere.

Al Sisalvichipuò Hospital i tagli cesarei erano come le ciliegie: uno tirava l’altro. E per un anestesista di provincia che si rispetti erano pane quotidiano. Non ebbe il tempo di riagganciare la chiamata proveniente dal reparto di ostetricia che sentì urla provenienti dal complesso operatorio.

— Un cesareo. Un ceareoooooooooo.

Era Aida Sguaitamatti.

— Ma è urgente-urgente? C’è bradicardia? Sanguina?

— No.

— Ma che urgenza è? — chiese Piergiorgio.

La voce di gallina di Aida riempì l’antisala.

— Il cesareo è urgente. Vedi? Ti ho fatto il foglio — asserì la ginecologa, sbattendo la cartella sulla scrivania dell’accettazione. — E sul cesareo devi stare zitto. Decido io. Tu lo sai chi sono io?

— Una gallina che urla! — rispose Piergiorgio.

— Come ti permetti.

— Senti, io ti ho solo detto che la situazione non è così urgente da fare sto casino. Siamo in tempo di coronavirus e la dovreste smettere con le finte urgenze programmate dal giorno prima!

— La signora è già pronta, digiuna da ieri sera — affermò Aida Sguaitamatti, trotterellando.

— Ah certo! Hai visto che mi prendi in giro? È programmata e me la passi d’urgenza!

Piergiorgio girò i tacchi e si diresse verso l’accettazione. In tutti gli ospedali d’Italia l’anestesista era considerato lo zerbino. Ma i tempi stavano cambiando. Se si fosse trovato a decidere chi intubare o no per carenza di posti, avrebbe preferito la dottoressa Apnea alla Sguaitamatti. E con questo pensiero aveva esplicitato quanta stima nutriva nella ginecologa.

— Sbrigati! Non perdere tempo. — Aida continuava a urlare.

— Devo visitarla, far firmare il consenso. Stai calma e non urlare.

— Tu, dico a te! — La ginecologa si rivolse all’infermiera.  — Il tavolo è pronto? Hai avvisato il Nido?

Piergiorgio rideva di sottecchi. La verità era una: Aida Sguaitamatti sarebbe stata una vittima, ma il coronavirus le sarebbe stato lontano, acida per com’era. A lei ci avrebbe pensato il ben più temibile cacazzo!

#4 Muta da sub

Piergiorgio odiava lavorare la domenica, innanzitutto perché gli toccava il turno di dodici ore, dalle otto alle venti, con annessa reperibilità notturna dalle venti alle otto. Ma anche perché l’ufficio ticket era chiuso e non avrebbe potuto scambiare due chiacchiere con Marina, la bionda fausa sulle cui labbra avrebbe voluto perdere i sensi. Ma una domenica sì e l’altra pure, vista la carenza cronica di rianimatori, dettata dalle scelte scellerate della politica, si ritrovava ad abbronzarsi con le scialitiche con chirurghi di ogni specie alle calcagna. E mentre l’on. Curcuruto di Forza Calabria pranzava con la famiglia e meditava nuovi metodi per prendere in giro i cittadini e ficcargliela senza lubrificante nel didietro, i rianimatori, animati dal senso del dovere e sostenuti da un giuramento, si facevano in quattro per non abbandonare i pazienti. Piergiorgio si scagliò contro Ippocrate: ma se proprio voleva giurare, perché non giurava solo lui anziché scassare la minchia a tutti i medici nei secoli dei secoli?

Ma i cari onorevoli, provenienti da commissioni, scuole di pensiero e maestri diversi, non avevano capito (o facevano finta di non capire) che la sanità calabrese era già allo sbando prima del cornonavirus. Solo che fino al cinque marzo nessuno si era mai accorto di quanto fossero importanti gli anestesisti-rianimatori: sottopagati, sfruttati, e con la dignità sotto le scarpe.

Piergiorgio salì le scale che dall’UTIC lo portavano direttamente in Rianimazione. Aveva una Marlboro spenta all’angolo della bocca e la testa incassata nel piumino. Era quasi primavera, ma le temperature si mantenevano fresche persino in Calabria.

Gargamella lo accolse con la solita risata accogliente e ironica.

— Te la sei portata la mascherina da casa?

Piergiorgio sfoggiò trentasei denti perfetti e senza degnarlo di una parola, si fiondò in cucina a fumare. Sentiva la necessità di nicotina.

— Per la modica cifra di ottantacinque euro ho comprato una bella mascherina FFP3 — disse.

Gargamella si passò la mano sulla pelata e si trattenne dal commentare.

— Inutile che stai zitto, lo so che pensi che con ottantacinque euro ti facevi una bella mangiata di pesce. Ma ieri sera sono andato in farmacia e mi sono accaparrato l’ultima all’asta. Sai com’è? Per la salute…

— Noto che il periodo ha provocato una piccola maggiorazione sui costi — ironizzò Gargamella.

Finita la prima, Piergiorgio accese la seconda Marlboro. Nello stesso tempo di avvicinò alla moka e iniziò a prepararla.

— Te le sei lavate le mani? — chiese Gargamella.

Piergiorgio disse: — Il caffè è bollito, il virus muore.

— Perché non hai la mascherina chirurgica? — lo incalzò il caposala.

— Perché stamattina ho lavato i denti col Betadine e poi perché il fumo uccide il virus.

— Fossero tutti parsimoniosi come te, avremmo mascherine chirurgiche in abbondanza. 

— Finalmente è arrivata la fornitura — disse compiaciuto Piergiorgio dopo aver acceso il fornello a induzione.

Gargamella rise di gusto. — Se si può chiamare fornitura… un pacco di mascherine chirurgiche.

— E dopo le scarpe di cartone, ci danno le fionde… — Piergiorgio avrebbe preso per il collo l’on. Curcuruto e gli avrebbe fatto rimangiare tutte le bugie che raccontava agli elettori.

— Il tuo amico… sì… il politico della tua città. Come si chiama?

— Curcuruto. — Esatto. Proprio lui. L’uomo copertina.

— Ha dichiarato che la Calabria è pronta, che la nostra rianimazione passerà da quattro a otto posti e che il conoronavirus non ci spaventa, che si è interessato personalmente con l’assessore regionale alla sanità per ottenere i DPI.

— Hai visto? Siamo a posto. — Piergiorgio tolse la moka dalla caffettiera e si versò una dose generosa di caffè.

— Ne vuoi? — chiese, rivolto a Gargamella.

Il caposala lo guardò torvo. — Leva le mani. Ognuno si versa il suo!

Il cacazzo da coronavirus ormai dilagava.

Piergiorgio non ebbe il tempo di terminare la sigaretta. La sirena del 118 risvegliò il pronto soccorso, che sonnecchiava senza troppo da fare. Il suo sesto senso che si stesse per scontrare con una supercazzola gli provocò una scarica di adrenalina. Inconsciamente si drizzò sulla sedia. Non passò nemmeno un minuto che il telefono della rianimazione squillò. Si trattava di un’anziana, sospetto COVID19. Il coronavirus era arrivato anche al Sisalvichipuò Hospital. Anche se quell’ospedale di provincia non era stato individuato come COVID, era naturale che i pazienti infetti sarebbero arrivati anche lì, peccato però che i DPI languivano.

Gargamella tirò fuori una tuta in TNT.

— Ma non doveva essere in Tyvek?

— O questa, o niente.

Piergiorgio si vestì e imbracò di tutto punto. Scafandrato, sembrava un astronauta pronto ad andare sulla luna. Aveva percorso solo pochi gradini, ma già era un bagno di sudore. Il facciale filtrante (che aveva comprato in farmacia) gli impediva di respirare bene, la tuta lo impacciava nei movimenti, la visiera protettiva gli riduceva la vista.

Ma a Piergiorgio non importava. Era nato per essere un rianimatore. Era il suo compito ed era pronto.

La vecchietta era con altissima probabilità un COVID. Il tampone era partito appena la paziente aveva messo piede in ospedale. Piergiorgio aveva capito a occhio che la situazione era torbida. Aveva fatto ciò che era giusto: intubazione oro-tracheale e ventilazione meccanica, in attesa degli esami strumentali e dell’esito del tampone, che sarebbe stato dirimente per indirizzarla verso il policlinico di Catanzaro, dichiarato dalla regione centro COVID di riferimento. Ma senza l’esito del tampone sarebbe rimasto in pronto soccorso nella stanza dedicata e isolata.

Erano le ventuno quando Piergiorgio alzò lo sguardo verso l’orologio della sala rossa. Si appoggiò su una sedia. La vescica pulsava sul basso ventre, assomigliava ormai alla testa glabra di Gargamella. Sorrise sotto la FFP3 per la battuta che gli era venuta in mente nonostante lo sconforto che lo assaliva. Era rinchiuso nello scafandro da dodici ore e una sacrosanta pisciata se la sarebbe fatta, ma visto che la tuta era l’unica disponibile, come avrebbe potuto indossarla di nuovo? La mascherina era diventata un tutt’uno con la sua faccia. La barba prudeva. Gocce di sudore scivolavano dalla fronte e sugli occhi, rendendo difficile vedere.  

Buio. Pensava al domani e vedeva solo una coltre fuligginosa. Quando sarebbe arrivata la primavera per allontanare la bruma del mattino? Un solo pensiero lo tirò su di morale: i cannelloni di nonna Veronica. Ne avrebbe fatto una scorpacciata appena arrivato a casa. Sempre se avesse avuto l’opportunità di togliere quella maledetta tuta. In quell’istate aveva capito perché in ospedale i DPI scarseggiavano. Era tutto a beneficio degli operatori sanitari: non avrebbero sofferto per ore e ore rinchiusi in quella sauna. Ogni istante sembrava non trascorrere. L’orologio alla parete sembrava fermo sempre alle ventuno.

Alle sei e dodici minuti del mattino (venti ore dopo l’esecuzione del tampone) sbucò dal corridoio la testa di Ciccino Sampei, l’infermiere del Pronto soccorso che era rimasto a dargli una mano (a distanza).

— Positivo, dottore! — disse, con addosso l’apprensione di una famiglia a casa da cui tornare. Il volto sorridente dell’infermiere era un marchio di fabbrica, ma la pandemia aveva spento ogni voglia di ironia, nutrendo la paura negli angoli nascosti dell’animo umano.

— E ora che si fa? — chiese Piergiorgio, stremato.

— Mi metto la divista e arrivo. Il posto è al policlinico di Catanzaro.

— Ma non lo trasferisce il 118? — urlò Piergiorgio da sotto la tutta. La sua voce rimbombava.

— No, dicono che loro non si muovono. Sono tutti impegnati.

Piergiorgio imprecò contro la costellazione di Orione, l’Orsa Maggione e anche la Stella Polare.

— Ma i protocolli? Le procedure? Gli accordi? Le riunioni?

— Tempo perso, duttureddu! Siamo in guerra. E n’amu arranciari!

Ciccino aveva ovviato alla carenza di DPI: si era portato da casa la sua muta da pesca.

Piergiorgio rise a crepapelle, tanto da farsela sotto (e non era una battuta).  

— Imbracato così anche il coronavirus si spaventa!

— Dottore, solo questa ho. E non mi lascia scoperto in nessuna parte del corpo. Guardi. — Ciccino si esibì in una piroetta.

— Ti mancano le pinne! — Piergiorgio non ce la faceva a stare serio. Sarebbe morto il giorno esatto in cui avesse smesso di ridere. Un altro schizzo di pipì alleggerì il suo ventre dolente.  

Pronti, partenza e via.

Arrivarono a Catanzaro, dove pareva che le cose funzionassero meglio del Sisalvichipuò Hospital.

Era mezzanotte quando finalmente Piergiorgio svuotò la vescica. Era in un bagno di sudore quando uscì dalla toilette del policlinico. Adocchiò un distributore automatico, avrebbe avuto bisogno di due litri di acqua, ma non ebbe il tempo di fare due passi. Tutto divenne bianco.

La vita gli passò davanti insieme alle tempeste che lo avevano sbattuto come un relitto sugli scogli. Se ripensava a quello che aveva visto e vissuto, il domani non poteva che riservargli solo bellezza. Ma proprio quando la primavera sembrava essere arrivata prepotente nel suo animo, era sopraggiunto lui: il virus made in china.

Duttureddu, duttureddu… — Ciccino lo schiaffeggiava con violenza.

Piergiorgio aprì gli occhi. Alla vista dell’infermiere, li richiuse.

— Sono vivo, ma ti giuro che se me ne dai un’altra mi alzo e ti prendo a calci in culo fino a casa.

Avrebbe preferito le labbra rosso fuoco di Marina e i suoi occhioni ambrati, ai riccioli sporchi e sudati di Ciccino.

— Torniamo a casa — disse Piergiorgio.

Il Salvichipuò Hospital di lunedì mattina profumava di casa. Evitò di passare davanti allo sportello dell’ufficio ticket, non voleva che Marina lo vedesse in quello stato pietoso. Ma non si può sfuggire al destino e quando varcò la soglia della porta scorrevole d’ingresso lei era lì, al bar. Accanto a lei c’era Umberto Desiderio, famoso per i suoi corteggiamenti senza freni. Il volto già stanco di Piergiorgio si increspò ancora di più, amplificando il solco sulla fronte.

Umberto, vestito di tutto punto con una camicia griffata e il camice bianco lindo e profumato, si atteggiava con la splendida Marina, che quel giorno sembrava più bella del solito.

Piergiorgio non riuscì a trattenere l’indole sanguigna e l’embolo partì senza possibilità di bloccarlo. Si avvicinò ai due. Sembrava Mohamed Alì.

— Scusate se interrompo la vostra colazione, ma non siete a un metro di distanza.

Umberto si voltò senza parlare, contrariato. Di certo Marina doveva essere difficile da conquistare: era la strafiga del Sisalvichipuò e le sbavavano dietro fior di uomini pronti a lasciare le famiglie per un posto nel suo cuore.

— Scusa?

— Hai capito bene. Allontanati!

Il tono di Piergiorgio non ammetteva repliche.

Marina restò in silenzio ad osservare la scena, mentre i due uomini lanciavano saette dagli occhi. Poi intervenne: — Ha ragione Piergiorgio. Torno a lavoro. — Indossò la mascherina e si diresse all’ufficio ticket. Il fondoschiena della donna, fasciato in un vestitino blu aderente, iniziò a cantare la nona di Beethoven e la giornata di Piergiorgio iniziò a illuminarsi.

Nello stesso istante l’on. Curcuruto se ne stava sbracato nella sua piscina privata coperta con un Moscow Mule in mano e l’i-phone nell’altra. Controllava i commenti dell’ultimo post su Facebook. La sua foto mentre arringava al palazzo della regione faceva veramente effetto. E sotto il messaggio criptico: Sto lavorando per voi. Fatti, non pugnette! c’eranoduemilatrecento “mi piace” e commenti da tifo da stadio. Li aveva conquistati tutti con quattro puttanate. Anzi no… li aveva presi per il culo!

© Antonino Genovese

#3 Aida Sguaitamatti e l’urgenza programmata in tempo di coronavirus

Il conoravirus avrebbe causato molte vittime, di questo ormai Piergiorgio ne era certo. Ma al di là degli infetti e delle polmoniti intrattabili, molti sarebbero finiti sotto le grinfie dei becchini per una patologia tanto diffusa quanto misconosciuta: il cacazzo.

Anche Piergiorgio se la faceva sotto dalla paura. Non solo per quella di infettarsi e di finire con un tubo in gola a causa delle venti (dichiarate) sigarette al giorno, ma soprattutto lo inquietava il terrore di non potersi recare da Nonna Veronica, che lo riempiva di prelibatezze. Il freezer già iniziava a svuotarsi e, se l’isolamento continuava, sarebbe finita a mozzarella e scatolette. Altro che parmigiana di melenzane. I suoi addominali erano in pericolo. Ma meditava un piano b: nonna Veronica poteva tranquillamente lasciare i manicaretti da congelare nell’ascensore, evitando di correre il rischio di infettarsi. Senza la sua pancia da rianimatore non si sentiva se stesso. Avrebbe fatto questo sacrificio per tutelare l’immagine di tutta la categoria. Si ripromise di chiamarla nel momento in cui i viveri fossero davvero ridotti all’osso. Meglio non rischiare la salute della nonna. Si sarebbe rimesso in carreggiata una volta fronteggiata la pandemia.

Piergiorgio, come ogni sacrosanto giorno, varcò la soglia del Sisalvichipuò Hospital, ma quella mattina trovò una bella novità: nella stanzetta del timbro si entrava uno alla volta e bisognava mantenere un metro di distanza gli uni con gli altri. Dopo dieci minuti di attesa sfoderò il cartellino e iniziò ufficialmente il turno sotto gli occhi della dottoressa Gianna Apnea, il direttore sanitario di presidio fresca di nomina, premiata per le sue grandi qualità… sotto la scrivania dell’On. Curcuruto prima e dell’assessore regionale alla sanità dopo. Senza considerare le male lingue che urlavano a gran voce un suo passaggio sotto lo scrittoio (piccolo, ma comodo) del direttore generale. La dottoressa Apnea, mascherina sotto il naso, occhialino da professoressa e capello fresco di piega (con le parrucchiere chiuse Piergiorgio non si capacitava di cotanta ostentata perfezione) vigilava sul rispetto della distanza di sicurezza con un bastone lungo un metro.

— Dottore Morfina, dov’è la sua mascherina? Perché ne è sprovvisto?

La voce sgradevole lo riportò alla realtà, trascinandolo via dal sogno che stava facendo: la tavola cunzata a casa di Nonna Veronica.

— Direttore, buongiorno. Non credo che il mio reparto sia fornito di mascherine in abbondanza. Se ne troverò una, la indosserò.

— Oggi sono arrivate ben cinquanta mascherine. Non si lamenti e rispetti le regole.

Piergiorgio annuì. Non aveva voglia di iniziare il turno polemizzando.

Si voltò e squadrò la dottoressa Apnea: non si sarebbe fatto sfiorare nemmeno con un dito, né sotto, ma tantomeno sopra la scrivania.

Arrivato alla fine del corridoio, anziché continuare dritto verso la scala che lo avrebbe condotto in Rianimazione, svoltò a destra per passare dinanzi all’ufficio ticket. Marina era lì, seduta alla sua postazione. La osservava. Era bella. Una bionda (fausa) con occhi da cerbiatta. Non riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. La donna era impegnata a discutere con una paziente gravida che doveva fare una visita in intramoenia con la sua collega ginecologa Aida Sguaitamatti, ricercatissima dalle pazienti, ma da evitare come la peste per il suo scarso appeal con i libri universitari: non li aveva mai aperti.

Quando Marina alzò gli occhi dalle scartoffie i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri. Piergiorgio sentì che le gambe gli stavano crollando. Quando lei gli regalò un sorriso, lui alzò la mano destra e la salutò. Stava per tornare indietro e imboccare il corridoio per raggiungere il suo reparto, ma si sentì chiamare. — Dottore, dottore.

Piergiorgio si voltò. Era lei. Ebbe il dubbio che si stesse riferendo proprio a lui. Un anestesista che veniva chiamato “dottore” era cosa insolita. Ma i tempi stavano cambiando.

— Sì… sì… sono io.

Piergiorgio, cazzuto, cinico e stronzo rianimatore, iniziò a tentennare e si meravigliò di se stesso: non era da lui.

— Dottore Morfina, lei è un anestesista?

— Sono rianimatore, sì.

Piergiorgio non apprezzava essere etichettato come quello che addormentava e svegliava i pazienti. Il suo lavoro era ben altro. Definirsi rianimatore lo faceva sentire più figo, specie in tempo di coronavirus.

— Volevo chiederle una cortesia.

— Certo, ma a una condizione. Non sono poi così vecchio. Diamoci del tu e mi sentirò meno in imbarazzo.

— Certo, certo — disse Marina. Le sue guance si imporporarono.

— Come ti posso aiutare?

Marina si avvicinò al suo orecchio e Piergiorgio approfittò della vicinanza per assaporare il suo profumo. Ne fu subito certo: si trattava di Bottega Veneta. Il suo olfatto non mentiva mai. Poteva riconoscere ogni tipo di fragranza.

— Puoi procurarmi una mascherina FFP3?

Piergiorgio si sentì preso in contropiede. Ipotizzava altro: una cena in un locale romantico (post isolamento), un viaggio all’Allianz Stadium a vedere la Juventus (post riapertura campionati), una passeggiata in riva al mare (le spiagge il premier Conte le aveva chiuse o no?).

— Veramente… non penso che ne abbiamo… forse una… o due…

Il volto angelico di Marina si rabbuiò. Un velo di delusione le adombrò lo sguardo.

— Ma non ti preoccupare. Te ne procurerò una. Per me niente è impossibile.

Il sorriso carico di fiducia della donna ristabilì il suo equilibrio con l’universo.

— Grazie, Piergiorgio. Sapevo di poter contare su di te.

Avrebbe voluto baciarla, ma in tempo di isolamento non era il caso che si lasciasse andare in slanci d’affetto. Mentre Marina tornava alla sua postazione di lavoro Piergiorgio non poté fare a meno di radiografare il fondoschiena parlante su cui sperava di far morire, un giorno non troppo remoto, la sua mano.

La soddisfazione di averla resa felice per la prima volta durò il tempo delle scale, perché Gargamella sbraitava al telefono con la farmacista. I DPI sarebbero rimasti un sogno.

— Caposala, con che cosa ci proteggeremo dall’infezione? Arriveranno molti casi. Se raggiungiamo solo il 10% dei numeri della Lombardia siamo fottuti, lo sai?

— Ti rispondo in italiano così mi capisci: con una beata minchia!

— A me serve una FFP3.

— E per fare che?

— Fatti miei.

— Non ce n’è! — Gargamella non reggeva più lo stress. Ad ogni richiesta scattava come una molla.

— Ma possono lasciarci morire in questo modo?

— Ti ricordo che durante la seconda guerra mondiale ci hanno mandato in Russia con le scarpe di cartone. Ti meravigli se non abbiamo tute in Tyvek e mascherine FFP3?

— A me ne non me frega niente delle tute, mi serve una mascherina.

— Compratela in ferramenta!

Forse con Marina non avrebbe fatto cattiva figura. L’avrebbe conquistata. In tempo di coronavirus una FFP3 è più accattivante di un mazzo di rose rosse. Si allontanò senza degnare Gargamella di uno sguardo e si fiondò nella stanza del medico di guardia, lontano da orecchie indiscrete. Da quel guaio poteva tirarlo fuori solo il suo amico scrittore Edoardo. Compose il numero. Al terzo squillo rispose.

— Amico mio.

— Stai disturbando la mia ispirazione… — il tono sprezzante di Edoardo voleva significare solo una cosa: era in fase creativa.

— Scusa, ma è una cosa vitale.

— Sto scrivendo una scena importante del sequel del mio romanzo. Questi cinesi non mi avranno mai!

— Smettila con queste cazzate delle teorie complottiste. Nessuno vuole bloccare il tuo estro creativo. A proposito, come hai deciso di intitolare il secondo romanzo della tua saga?

— L’asiatica sulla scrivania.

— Originale.

— È un romanzo erotico a sfondo sociale. Ha alla base la lotta della società contro il vilipendio dei virus. Ma tu non puoi capire, del resto infili aghi nella schiena della gente e tubi tra le corde vocali.

— Ho bisogno di un favore. — Piergiorgio andrò dritto al sodo.

— Sono tuo amico, anche se mi hai tradito non leggendo il mio romanzo.

— Vai in ferramenta e compra una FFP3. — Piergiorgio ignorò l’offesa dell’amico.

— Una mascherina?

— Sì. Ma bada bene che sia FFP3.

— Ok.

— Fammi sapere se ne trovi. Vanno a ruba. In ospedale non ne abbiamo e la farmacia non sappiamo se ne fornisce.

— Consideralo fatto. In casa ne ho sei confezioni da cento.

— Cosa?

I quattro peli castani sul cranio di Piergiorgio si drizzarono.

— Con questo romanzo sfiderò i potenti del mondo e metterò in discussione le loro certezze. Ho pensato che dovevo proteggermi dai loro attacchi. Dopo il COVID19 ci sarà il COVID20. Devo essere pronto.

— Hai 600 mascherine a casa?

Piergiorgio immaginò il ghigno di soddisfazione dell’amico all’altro capo del telefono.

— Mettimene una da parte. Non fare lo stronzo.

— Ti aspetto dopo il lavoro, ma ora fammi lavorare. Ho molto da fare.

Piergiorgio stava per liberare il carattere calabrese fumantino, ma la chiamata per un cesareo di urgenza lo riportò al dovere.

Al Sisalvichipuò Hospital i tagli cesarei erano come le ciliegie: uno tirava l’altro. E per un anestesista di provincia che si rispetti erano pane quotidiano. Non ebbe il tempo di riagganciare la chiamata proveniente dal reparto di ostetricia che sentì urla provenienti dal complesso operatorio.

— Un cesareo. Un ceareoooooooooo.

Era Aida Sguaitamatti.

— Ma è urgente-urgente? C’è bradicardia? Sanguina?

— No.

— Ma che urgenza è? — chiese Piergiorgio.

La voce di gallina di Aida riempì l’antisala.

— Il cesareo è urgente. Vedi? Ti ho fatto il foglio — asserì la ginecologa, sbattendo la cartella sulla scrivania dell’accettazione. — E sul cesareo devi stare zitto. Decido io. Tu lo sai chi sono io?

— Una gallina che urla! — rispose Piergiorgio.

— Come ti permetti.

— Senti, io ti ho solo detto che la situazione non è così urgente da fare sto casino. Siamo in tempo di coronavirus e la dovreste smettere con le finte urgenze programmate dal giorno prima!

— La signora è già pronta, digiuna da ieri sera — affermò Aida Sguaitamatti, trotterellando.

— Ah certo! Hai visto che mi prendi in giro? È programmata e me la passi d’urgenza!

Piergiorgio girò i tacchi e si diresse verso l’accettazione. In tutti gli ospedali d’Italia l’anestesista era considerato lo zerbino. Ma i tempi stavano cambiando. Se si fosse trovato a decidere chi intubare o no per carenza di posti, avrebbe preferito la dottoressa Apnea alla Sguaitamatti. E con questo pensiero aveva esplicitato quanta stima nutriva nella ginecologa.

— Sbrigati! Non perdere tempo. — Aida continuava a urlare.

— Devo visitarla, far firmare il consenso. Stai calma e non urlare.

— Tu, dico a te! — La ginecologa si rivolse all’infermiera.  — Il tavolo è pronto? Hai avvisato il Nido?

Piergiorgio rideva di sottecchi. La verità era una: Aida Sguaitamatti sarebbe stata una vittima, ma il coronavirus le sarebbe stato lontano, acida per com’era. A lei ci avrebbe pensato il ben più temibile cacazzo!

© Antonino Genovese

#2 Teorie complottiste

La sensazione che provava ogni volta che si trovava al Sisalvichipuò Hospital era la stessa dal 2014, quando per la prima volta aveva varcato la soglia del piccolo ospedale di provincia di cui si era innamorato: era a casa.  Piergiorgio non amava i grandi numeri degli ospedali di città. Le gerarchie dei Policlinici non facevano per lui che era sempre stato d’indole libera e poco incline alle regole. Ma da quando era scoppiata la pandemia e la gente moriva, non si sentiva al sicuro. Il premier aveva parlato alla nazione, emanando un DCPM restrittivo che aveva messo le ganasce persino al suo amico scrittore-mantenuto Edoardo, il quale era stato costretto ad annullare il mega evento letterario per la presentazione del suo libro porno-erotico “La dottoressa se la fa in ambulatorio”, che il regista Rocco Siffredi aveva già opzionato per un film che sarebbe stato girato entro la primavera del 2021. 

Non riusciva a rinunciare alle vecchie abitudini, non tanto perché non riusciva a privarsi di ciò che faceva da anni, ma per la sua indole scaramantica. Alla colazione al “Bar Mario” con Edoardo non avrebbe rinunciato. Ne valeva della buona sorte del turno.

Caffè ristretto amaro come il veleno, mezza ciambella fritta senza zucchero e sigaretta.

— Sono le sette e mezza. A che ora monti? — chiese Edoardo, alto e dinoccolato. Con l’indice riposizionò gli occhiali da sole alla radice del naso a patata. Proprio non ne volevano sapere di stare al proprio posto.

— Alle otto. Mi fai la stessa domanda da cinque anni.

— Sì, ma porta bene. O no?

Piergiorgio si toccò in mezzo alle gambe. Il gesto non passò inosservato ai pochi avventori, che lo guardarono schifati. Era poco galante, ma un turno in pace era molto meglio delle occhiate malevole della gente.

— Speriamo.

— Posso farti una domanda personale? — chiese Edoardo, dopo aver ingurgitato il caffè in un unico sorso.

Piergiorno annuì

— Ma perché continuiamo a fare colazione in questo bar schifoso?

— Perché porta bene.

— Ah sì, allura paga tu, e prepara un posto in rianimazione che mi hanno avvelenato!

Piergiorno accese la Marlboro. E siamo alla terza, pensò. Di questo passo il pacchetto non sarebbe arrivato a sera.

I pochi coraggiosi che prendevano ancora il caffè al bar si scansavano gli uni dagli altri, respiravano poco e parlavano ancora meno. Piergiorgio si diresse a rapide falcate verso l’ospedale. Erano le otto meno dieci e non era sua abitudine dare il cambio in ritardo.

— Secondo me questo è un virus creato in laboratorio per distruggere l’occidente — disse Edoardo.

— Sì, come no…

— Te lo dico io! Questi cinesi vogliono affossarci.

— Secondo te siamo una potenza economica che fa paura? Ma dai… ti facevo più intelligente.

Edoardo afferrò il gomito di Piergiorgio, che sobbalzò. Da giorni ormai i contatti umani e le manifestazioni d’affetto erano bandite.

— Ci sono! Il mio best-seller.

Piergiorgio si staccò dalla presa e riprese a camminare verso l’ospedale senza dargli conto.

— La scena con l’asiatica!

— Non ti seguo.

— Hai letto o no il mio libro? — Edoardo si piazzò dinanzi all’amico, impedendogli di proseguire

— Non tutto… sai… insomma…

Edoardo si accigliò.

— Non ti offendere. È un porno! E anche poco originale.

— Poco originale! Tu non capisci niente di libri!

— Sì, ma… insomma… non so che c’entra l’asiatica.

— Stanno boicottando il lancio del mio libro. Io sarei diventato famoso… capisci? La pandemia è un pretesto per tarparmi le ali da scrittore. Persino Rocco si è interessato al testo, sta già scrivendo la sceneggiatura.

— Sono certo che era interessato ai dialoghi! — ironizzò Piergiorgio, poi riprese a camminare.

— Tu puoi non credermi, ma si tratta di un complotto internazionale.

— Sì, ma stai a casa. Non uscire e non fare stupidaggini. Se il coronavirus dilaga, siamo persi.

— Vedrai che è solo un’influenza. Una bolla di sapone… — Edoardo minimizzò, come era suo solito fare.

— Spero che sia come dici tu. Mentre tu studi bene la scena con l’asiatica, io vado a lavorare. Il Sisalvichipuò ha bisogno di me.

— Sei fissato con questo ospedale. In fondo sono quattro mura, un tetto, siringhe, sale operatorie…

— Forse per te, per me è… casa.

Edoardo non sapeva che lì dentro, presente tutti i giorni dietro il vetro dell’ufficio ticket, c’era Marina, la donna che con i suoi capelli biondi, il suo sorriso smagliante e, soprattutto, un fondoschiena parlante, lo aveva stregato fin dalla prima volta che ci era andato a sbattere contro.

Le cose non erano andate come sperava e quella mattina Marina era nascosta in qualche sgabuzzino recondito a sbrogliare scartoffie. Il sole che brillava dentro il Sisalvichipuò era offuscato. Aveva l’impressione che la primavera fosse rimasta fuori ad aspettare un invito, come un ragazzo di troppo quando si fanno le squadre al campo dell’oratorio. Per un attimo tornò adolescente, mentre calcava i campi di calcio sterrati e il sogno di diventare il nuovo Roberto Baggio, solo che a stroncare tutto era stata una torsione di troppo del ginocchio e i legamenti saltati per aria. Anche se di Baggio aveva avuto solo il codino, perché i piedi erano storti come una quercia piegata al vento, inutile negare l’evidenza. Al destino non si scappa e così a vent’anni aveva capito che doveva rimettersi a studiare. Aveva conosciuto il suo maestro in un maggio assolato, mentre fuori i suoi coetanei correvano dietro sogni irrealizzabili, lui si era innamorato di un laringoscopio e un tubo da mettere in mezzo alle corde vocali. Ed era stato amore. Piergiorgio sentiva di essere nato per quello: l’umo per gli altri.

Salì i gradini con mille pensieri e una Marlboro spenta all’angolo della bocca. Aprì la porta del reparto. Un lungo corridoio collegava il complesso operatorio alla Rianimazione. Lo accolse il caposala Gargamella. Occhi spiritati dentro un cranio calvo. Le occhiaie di chi non dorme da molti giorni. Una sigaretta appena rollata. Due orecchie a parabola piegate sotto il peso di un paio di occhiali del dopoguerra. Sembrava un gatto pronto a scattare: pelo arricciato e artigli allerta.

— Mettiti la mascherina. — Lo rimproverò.

— Ma sei impazzito?

Piergiorgio non lo riconosceva più. Il Coronavirus aveva trasformato lo scanzonato Gargamella.

— Fuori c’è la morte. Lo capisci? La morte. E noi non abbiamo percorsi. Non abbiamo DPI. Ho tirato fuori tutto quello che era utile in farmacia e sai che ho trovato?

Piergiorgio fece segno di no con la testa.

— Una beata minchia!

Gargamella si allontanò e dopo pochi passi si esibì in un saltello nervoso.

— Anziché scassarmi la minchia come fai da sei anni a questa parte… il primario dov’è?

Piergiorgio non ottenne risposta, ma le discussioni in cucina lo informarono con abbondanza di dettagli (al settanta percento inventati) degli ultimi eventi di reparto cui lui non era a conoscenza.

Il dottor Muccalapuni soffriva di ipertrofia prostatica cronica. Andava a pisciare ogni venticinque minuti, cascasse il mondo. E tramite l’onorevole Curcuruto aveva ottenuto un appuntamento dal dott. De Tubis, luminare del settore prostatico. In pratica nel mondo potevano solo… inchinarsi a lui. Ma le liste d’attesa si allungavano, specie per chi, come Orazio Muccalapuni, aveva il braccino corto e preferiva una scorciatoia politica a sborsare le duecentocinquanta euro più iva di visita intramoenia. Così l’esponente di spicco di Forza Calabria, nonché sponsor politico della sua nomina a primario, era riuscito ad ottenere un appuntamento a ufo per il 24 febbraio 2020. Ma De Tubis non sembrava tipo da sottomettersi a un politico, specie se della Terronia, così per un capriccio aveva rinviato il consulto per il 27 febbraio, in piena emergenza corunavirus. Muccalapuni al rientro dalla zona rossa della Lombardia si era rinchiuso in quarantena a casa con la sua giovane e generosa terza moglie, lasciando allo sbando più totale i rianimatori del Sisalvichipuò.

— Quindi se mi arriva un COVID che faccio? — chiese Piergiorgio.

— Prega — rispose Gargamella, sghignazzando.

Sistemeranno tutto. Non ci lasceranno in balia della tempesta, pensò Piergiorgio. Ma più che una certezza era una recondita speranza in fondo al suo animo.

— Compà. — Entrò in cucina, mantenendo la distanza di sicurezza, l’altro maschio del reparto: Pippo Buddacio.

— Ehi. — Piergiorgio non aveva voglia di sfoderare la sua ironia. Tra la sottile cefalea, residuo della bevuta della sera prima, e la paura che iniziava a montare per una pandemia che bussava alle porte del suo ospedale, la voglia di scherzare l’aveva lasciata fuori dalla porta della Rianimazione.

— Amico mio, quante ferie residue hai? — sussurrò, dopo averlo fatto uscire dalla stanza in cui gli altri colleghi ironizzavano sulle prestazioni sessuali di Muccalapuni.

— Dovrei controllare il cartellino… saranno novanta giorni.

— Ho trovato il modo per levarci da questo posto per quattordici giorni. — Gli occhi azzurri di Pippo saettavano, febbrili. I riccioli brizzolati crescevano incolti e bizzarri, così come la barba, lasciata allo stato brado.

— Il direttore sanitario ha revocato le ferie — disse Piergiorgio, ripetendolo a se stesso per interiorizzare il concetto.

— Ho un piano.

Piergiorgio avvicinò l’orecchio destro alla mascherina di Pippo.

— Ci serve un bambino positivo. I bambini sono vettori, ma sono asintomatici. Ne individuiamo uno di una casa di pazienti infetti. Lo blocchiamo, facciamo due tamponi e li mandiamo a nome nostro. Risulteremo positivi e ci mollano a casa quattordici giorni. Che ne dici?

— Pippo, ascolta, quant’è che non scopi?

— Come? Scopare? Che vuoi dire?

— Hai capito, quant’è che non stai con una donna?

Un tic nervoso si slatentizzò sull’occhio destro di Pippo.

— Fatti una scopata e levati dalla testa queste follie.

Pippo si sfregò le mani, poi si allontanò da Piergiorgio. La testa si muoveva sincrona con i passi, compiendo piccoli scatti ritmici sulla destra.

— Scopare, scopare — mormorava Pippo.

Già. E io quant’è che non sento l’odore di una donna? Pensò Piergiorgio.

Il pensiero tornò a Marina. Una giornata senza vederla era priva di significato. Anche un cinico, freddo e stronzo rianimatore come lui era stato colpito dalla freccia di cupido?

©Antonino Genovese

#1 Fino a trenta giorni fa

Lamelle di luce fastidiose iniziavano a scassargli la minchia, ma la sveglia non suonava. L’i-phone stazionava silenzioso e immobile sul comodino, come un alunno che conosce bene l’ira dell’insegnante per un movimento sbagliato durante la lezione. Si illuminava per i continui sms, notifiche e mail. Ma muto era e muto restava. Sapeva già che rischiava l’exitus. Era già traballante con uno schermo spaccato a metà. Se avesse suonato un minuto prima del previsto il suo destino era segnato.

O era arrivata la primavera in anticipo, o qualcuno dall’alto (e non era la ninfomane del piano di sopra) aveva deciso di farlo alzare con la luna storta, oppure le stagioni si erano sovvertite. Ultima teoria era la forza gravitazionale. Si era spostato durante il sonno dalla sua classica posizione a faccia in giù quel tanto che bastava affinché la luce stuzzicasse le sue palpebre.

Fatto sta che la lamella di luce lo aveva colpito esattamente nel suo punto debole e aveva preso a spallate Morfeo, che ancora lo cullava.

Guardò il cellulare con un occhio ancora impastato dal sonno e l’altro invece sveglio e pimpante. Il gruppo degli anestesisti-rianimatori “Al peggio non c’è mai fine” del Sisalvichipuò Hospital segnava settantadue sms.

— Minchia — disse. Stropicciò l’occhio ancora chiuso, poi cercò il pacchetto di Marlboro e ne accese una, seduto in mezzo al letto.

Iniziò a spulciare gli sms.

—Minchia! — ripeté, allungando la “a” finale.

Il premier Conte si era svegliato. Era il 5 marzo e il virus cinese che impestava il nord era davvero pericoloso e il consiglio dei ministri aveva deciso di mettere in stand-by l’Italia.

— Ve ne siete accorti solo ora, eh?

Si alzò, dopo aver scacciato le coperte. Mise i piedi a terra e non trovò le pantofole. La bocca era impastata per la bevuta colossale della sera prima. Con il suo amico Edoardo, scrittore e mantenuto, si erano scolati l’intero DOP. Un vuoto di memoria non gli consentì di collegare l’ultimo sorso di Vodka con il suo ingresso a casa. La testa sfrigolava come una vecchia locomotiva. Passò in cucina e ingollò un antiinfiamamtorio. La doccia era l’unico rimedio per darsi una svegliata prima del turno di lavoro. Appena il getto dell’acqua calda lo investì la sveglia iniziò a squillare.

— Coronavirus del cazzo, mi revocheranno le ferie!

Già, le ferie. Le aspettava dall’estate, quando era stato obbligato a consumare i giorni di allontanamento anestesiologico. Trattava da mesi con il suo primario per avere sette giorni di riposo e, nonostante il suo cartellino segnasse centoventidue giorni arretrati, sembrava quasi che gli facesse una cortesia.

— C’è carenza, dobbiamo garantire i LEA, ne vale della salute dei cittadini — gli ripeteva il suo primario, il dott. Muccalapuni, basso, tracagnotto e malato cronico di ipertrofia prostatica, culo e camicia col direttore sanitario aziendale e grande leccaculo dell’On Tony Curcuruto, esponente di spicco di Forza Calabria.

L’acqua lo riportò alla realtà e alla pandemia che presto avrebbe colpito anche il suo piccolo ospedale in provincia di Vibo Valentia, il Sisalvichipuò Hospital, incastonato tra Serra San Bruno e le spiagge di Pizzo.

— I LEA… la salute… la MINCHIA! Alla prima virgola fuori posto mi denunciano tutti: pazienti infami! — disse a voce alta, guardandosi allo specchio.

Si asciugò quei quattro peli che gli erano rimasti sulla testa, in compenso una barba folta e nera lo rendeva stronzo e impossibile.

“Anestesisti in grande affanno” era il titolo di uno dei numerosi articoli che girava sui social network.

— Fino a ieri eravamo gli specialisti più sfigati e adesso siamo i più gettonati dello stivale. Nemmeno medici eravamo considerati… ma andate a fanculo!

Accese la seconda Marlboro, si accomodò sul water e continuò a spulciare lo smartphone.

— Fino a trenta giorni fa non conoscevo nemmeno il mio nome. Adesso sono il più figo dell’ospedale. Allora mi presento: sono Piergiorgio Morfina e, indovinate? Sono un Anestesista-Rianiamatore!

©Antonino Genovese

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In tempo di pandemia ho deciso di iniziare una nuova avventura letteraria per esorcizzare questo momento difficile che stiamo vivendo. Per questo motivo pubblicherò sulle pagine del mio sito un racconto a puntate dal titolo “Correvano i tempi delle FFP3”.

Indovinate? Il protagonista è un Anestesista Rianimatore, si chiama Piergiorgio Morfina e fino a trenta giorni fa non lo calcolava nessuno (a parte gli avvocati e i magistrati). Adesso pare sia l’uomo più gettonato del momento.

Il racconto è ambientato in una remota località calabrese e le vicende si svolgono principalmente al Sisalvichipuò Hospital.

Questa storia ha l’obiettivo di esorcizzare il tempo difficile che viviamo. Scrivo per non aver paura e spero che voi leggiate per divertirvi e trascorrere qualche momento lontano dai pensieri che tra le mura domestiche si affastellano senza sosta.

La storia è dedicata agli Anestesisti Rianimatori che da sempre difendono la salute dei cittadini in barba alle scelte dei burocrati.

Alle 14:00 la prima puntata…