Quando si arriva in fondo a una storia l’emozione è forte per ciò che si è provato nel percorso che ha condotto alla fine. Questo racconto a puntate mi ha permesso di scavare dentro il mio animo e di sfogare ansie e preoccupazioni, ma anche di divertirmi insieme a Piergiorgio ed Edoardo. Molti di voi mi chiedono chi sia Marina, o Gargamella, o gli altri personaggi di questa storia. Preciso che è tutto frutto di fantasia, che non esiste nessuno di loro o forse sono tutti reali! Di vero ci sono i sentimenti che hanno condotto alla fine, che probabilmente è solo l’inizio.
Dedico il capitolo 10 a Clara, nata il 7 aprile 2020 alle ore 21.48 e ai miei amici Pietro e Teresa. Grazie, Clara, per avermi fatto superare le mie paure.
Se non fosse
stato per l’improvviso rialzo delle temperature, Piergiorgio non si sarebbe
accorto che la primavera era arrivata.
Il mondo
girava senza percepire ciò che stava accadendo. Era il sette aprile e sembrava
un giorno come un altro. Trascorrevano tutti uguali, inesorabili. La vita era
cambiata. Molte aziende erano sull’orlo della bancarotta. La popolazione
soffriva e aveva fame. E non c’è niente di più pericoloso di un popolo
affamato. Al sud una buona fetta dei cittadini viveva di lavori in nero, retribuito
a giornata, ma le restrizioni dello Stato non consentivano nemmeno di uscire di
casa, figurarsi andare a lavorare.
Piergiorgio
attraversò il marciapiede, quando una volante della Polizia di Stato lo
accostò.
—
Buongiorno. — Il poliziotto abbassò il finestrino e lo squadrò dai capelli
(pochi rimasti) ai piedi. Era un cinquantino con le spalle di Sylvester
Stallone, i bicipiti di Arnlod Schwarzenegger e la pancia di Bud Spencer.
—
Buongiorno.
— Dove sta andando? — chiese, con in volto stampato il ghigno di chi ha
beccato un altro trasgressore.
— In
ospedale.
— Se ha la
febbre non può.
— Non ho la
febbre, sto bene.
— Potrebbe
essere asintomatico.
— Non sono
malato.
— E allora
mi dia un documento. Lei sta commettendo un illecito. — Il poliziotto aprì lo
sportello e fece per uscire dall’abitacolo con fare minaccioso.
— Io sono un
rianimatore.
Il tempo si
fermò.
— Come ha
detto? — chiese il poliziotto, con gli occhi sgranati.
— Ha sentito
bene: sono un R I A N I M A T O R E.
— E dove
lavora?
— Al
Sisalvichipuò.
— Mi scusi
se l’ho importunata e mi scusi se le sto facendo perdere tempo. Vada pure e
buon lavoro.
Il
poliziotto salì sull’Alfa d’ordinanza.
— Se vuole
le mostro il tesserino.
— No, vada
vada. Anzi la scortiamo noi con la sirena.
— Non è
necessario. Non c’è traffico.
— Insisto.
— Faccia
come crede, ma…
Non ci fu
verso. Piergiorgio raggiunse l’ospedale a bordo della sua utilitaria, preceduto
dalla Polizia a sirene spiegate.
Il 2020 era
stata la svolta per i rianimatori. Piergiorgio entrò in ospedale camminando
sulle acque, a discapito dei vangeli.
Al
Sisalvichipuò Hospital il tempo trascorreva inesorabile, mentre l’on.
Curcuruto, nella sua villa con capitelli d’oro intarsiati e piscina
olimpionica, sparava minchiate a raffica sui social network, adescando folle
impazzite, desiderose di mettere like e di commentare in un italiano da quinta
elementare ogni genere di notizia.
Il dottor
Muccalapuni nel frattempo percorreva il perimetro della sua stanza, attendendo
la nomina a direttore di dipartimento. Non avrebbe mai più detto di no all’on.
Curcuruto, suo intimo amico: calzoni calati e culo a ponte, nei secoli dei
secoli. Amen.
Piergiorgio
era silenzioso. Guardava lo Smartphone. Marina non rispondeva ai suoi sms. Era
irritata per quanto accaduto il giorno prima con Uberto Desiderio e il
repentino soccorso che gli aveva negato. Ma alla fine dei conti il risultato
era stato una pantomima da premio Oscar alla faccia di Benigni. La messa in
scena era stata orchestrata per conquistare il cuore di Marina, ma era finita
male. Piergiorgio era riuscito a spuntarla, ma la bionda fausa era un
osso duro. Aveva un caratterino indomito e aveva bisogno di tempo per sbollire
l’incazzatura. Non poteva nemmeno abbonirla con un mazzo di fiori, perché qualcuno
aveva rubato le rose che la sua vicina di casa curava nel giardino. Era anche
uscito un articolo su 24calarialive che alludeva a un ladro impavido che
addormentava i cani per derubare i fiori. L’isolamento era anche questo:
follia!
Marina era
il culo più bello del Sisalvichipuò ed era sua: proprietà privata di
Piergiorgio Morfina, anestesista-rianimatore del Sisalvichipuò Hospital. Il
primo che l’avesse sfiorata con lo sguardo, sarebbe finito a testa sutta e
pedi all’aria.
Lo Stromboli
fumante era lo spettacolo che si vedeva dalle finestre della rianimazione. Quel
panorama mozzafiato era stato il motivo principale per cui Piergiorgio aveva
scelto come sede del contratto a tempo indeterminato Pizzo Calabro. Ma quella
scelta gli aveva regalato Marina. E tanto bastava per renderlo il rianimatore
più ricco del mondo.
Cazzeggiava
sui social e fumava una Marlboro attraverso la mascherina chirurgica, mentre si
sentiva nella poesia “Soldati” di Ungaretti: Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie. Nonostante
fuori la primavera imperversava impertinente, lui si sentiva in bilico, pronto
a rischiare la sua salute e quella dei suoi cari per un virus bastardo.
In quel
momento arrivò il primo sms, ma lo ignorò. C’era l’isolamento e tutti inviavano
catene di S.Antonio e vignette che lo facevano piangere anziché ridere.
Poi un altro
sms.
E un altro.
Alla fine il
telefono squillò. Era Edoardo, il suo amico scrittore.
— Come è
andata?
— Cosa?
— La poesia,
rimbambito!
— Bene. Sei
stato fantastico. Poi dovrai dirmi a chi erano realmente dedicati quei versi.
— Sono uno
scrittore maledetto e non so cosa sia l’amore — precisò Edoardo.
— Puoi far
credere quello che vuoi e metterti la maschera che preferisci, ma non insultare
la mia intelligenza. Tu sei innamorato perso! — Piergiorgio allentò la
mascherina. Non la sopportava più.
— C’è una
donna che mi piace, sì… è vero… ma… è gravida!
— Minchia!
Sei nella merda, amico mio!
— E me lo
hai tenuto nascosto! — Piergiorgio saltò dalla sedia. Accese l’ennesima
sigaretta della giornata e fu assalito dalla voglia di bere. Quello sì che era
uno scoop!
— E che
dovevo fare? Non avresti capito… ma ora anche tu hai il cuore nello zucchero!
— Siamo due
diabetici inguaribili! — disse Piergiorgio.
Poi risero.
— Ti
chiamavo per una cortesia.
— Certo.
Spara!
— Lei si
chiama Sara, ha ventisette anni. Per ora è sopra. Ha dolore. Dilatazione 3 cm,
collo appianato.
— E tu? Dove
sei?
— Che domande
fai! Ho un po’ di tosse e non mi fanno entrare. Sono asserragliato in casa! — Il tono di voce di Edoardo si incupì.
Piergiorgio
aspirò forate dalla sigaretta. Poteva solo immaginare lo stato d’animo del suo
amico.
— Dovresti
salire sopra e falle quella stregoneria che sapete fare voi rianimatori.
— Cosa?
— La
partoanalgesia.
— Ma noi qui
non la facciamo, siamo pochi, non possiamo… ci siamo sempre rifiutati…
— Non te lo
chiederei se non fosse importante per me.
Piergiorgio
non esitò. Spense la cicca nel posacenere, poi disse: — Va bene, amico mio!
L’ostetricia
era al terzo piano. Piergiorgio evitò di incrociare Nadia Canotto, sarebbe
stata una peridurale ficcata chissà dove. Si imbatté in una giovane moretta con
i capelli a caschetto (che se la tirava manco fosse Madonna) di cui non
ricordava il nome.
— Ciao, sono
qui per…
— Per?
— … una mia
amica…
— Come si
chiama?
Come minchia
si chiamava? Nemmeno il cognome si era fatto dire da Edoardo.
Prese lo
smartphone e stava per comporre il numero, ma il suo amico era stato più lesto
e lo aveva informato tramite sms
— Sara Addis
— disse Piergiorgio, dopo essersi rassettato la maglietta nera, che lo snelliva
di una taglia.
— Sì, mi
segua.
— Gradirei
fare l’analgesia in travaglio di parto.
La moretta
lo guardò, dopo essersi fermata in mezzo al corridoio.
— Ma lei lo
sa che non ne facciamo perché quelli come voi non hanno mai dato il benestare
perché sotto organico?
Come darle
torto.
— Sì… lei ha
ragione… però… questa è una mia amica.
— Ancora
peggio! Ancora peggio! Una raccomandata! —
La moretta iniziò a martoriarsi i capelli.
— Senti, me
la fai fare o no?
— Faccia
quello che vuole!
Sara Addis
era una grandissima scassaminchia e
non comprendeva come Edoardo se ne fosse innamorato. Si lamentava per la vena,
per la peridurale, per il dolore, persino per la gravidanza.
— Cosa
nasce? — chiese Piergiorgio per rompere il ghiaccio.
— Una
femminuccia.
— E come la
chiamerà?
— Artemide.
— Come mai?
— Chiedilo
al tuo amico!
— Lui è
fissato con i miti greci. Lo so…
Sara Addis
era sola. Purtroppo anche le nascite avevano subito una netta secessione tra
ciò che si faceva prima della pandemia e ciò che si faceva dopo. Niente fiori e
regali, ma soprattutto niente stanza piena di gente che bacia e accarezza
puerpera e prole. Niente prosecco (ma solo perché Edoardo era taccagno) e
niente familiari fuori. Artemide sarebbe
nata con la sua mamma e al nido non la avrebbe vista nessuno.
La
peridurale andò bene. Per Piergiorgio fu una delle migliori partoanalgesie che
avesse mai fatto. Ci aveva messo tutta l’attenzione possibile.
— Grazie,
Edoardo ha un amico speciale.
Piergiorgio
sorrise e mosse piccoli passi verso l’uscita. Una delle cose che lo facevano
commuovere erano i parti. Piccole creature che prendono vita. Per un istante
avrebbe voluto essere ostetrico, chissà che ebrezza tenere in braccio quei
marmocchi morbidi intrisi di purezza. Artemide che ne poteva sapere della
pandemia?
In quel
momento si sentì chiamare. Era l’ostetrica.
— La prenda
in braccio.
Piergiorgio
tremava. Era freddo, cinico e stronzo, ma dinanzi al mistero della nascita
tornava il mammalucco imbambolato davanti a Marina. Allungò le braccia e la
strinse a sé. Era piccola e morbida. Lacrime calde gli rigarono le guance,
mentre fuori lo Stromboli iniziava a mormorare. Quella nascita rappresentava la
speranza di quel domani che sarebbe stato per lui la felicità che aveva sempre
sognato e inseguito, ma che non aveva mai colto.
Lo
smartphone squillò. Era un sms che recitava: ti amo. Anche un carattere indomito come quello della bionda poteva
essere mitigato dal sentimento più grande che esiste: l’amore.
Si specchiò
negli occhi nocciola della piccola Artemide e vide dentro il suo domani: mano
nella mano con Marina, mentre dinanzi a loro l’orizzonte non sembrava per
niente distante.
Il
turno di guardia era cominciato come ormai avveniva da oltre trenta giorni.
Niente baci, abbracci o pacche sulle spalle. Resistevano sorrisi forzati a
battute stentate, pronunciate a denti stretti. Le abitudini erano cambiate e le
cene in compagnia erano annullate, ognuno provvedeva per sé. Gli sguardi era
intrisi di paura e diffidenza.
Piergiorgio
pranzò con la solita accoppiata mela e banana. Cercò lo specchio in bagno, ma
era stato divelto e posizionato nella stanza vestizione. Doveva smaltire la
pancia da muratore, ma alla birra non riusciva a rinunciare. Potevano togliergli
tutto, ma non la sua Cristalli di sale, in tal caso avrebbe alimentato i nuovi
vespri: la birra Messina non dovevano toccargliela.
Quella
mattina di fine marzo sembrava tranquilla. I contagi in Calabria non stavano
raggiungendo i livelli della Lombardia. Non comprendeva se fosse per l’esiguo
numero di tamponi effettuati, per le misure restrittive di isolamento, perché
un dio li stesse proteggendo oppure (ipotesi più plausibile) era solo un colpo
di culo.
Piergiorgio
si sentiva in un film messo in pausa. Tutto si era arrestato. E anche la sua
storia d’amore ne risentiva. Avrebbe voluto uscire, passeggiare e gridare al
mondo che Marina era la donna della sua vita, ma non poteva. Il virus made in
Cina stava affossando la società moderna, seppellendo abitudini e modi di
vivere. Quando tutto sarebbe tornato normale, non sarebbe più stato lo stesso.
Quello che prima era scontato, come un aperitivo con gli amici, la presentazione
del libro di Edoardo, andare in palestra o correre sul lungomare, andava
meritato e conquistato. L’umanità non aveva capito che la libertà era un dono.
Così come lo era Marina per lui. Un regalo inaspettato, mentre le sabbie mobili
lo inghiottivano. Era la sua alba. I contorni delle cose stavano di nuovo
prendendo forma, anche le più banali. Maledetta pandemia! Ma non tutto era
perduto. Se fosse sopravvissuto, non avrebbe perso nemmeno un secondo dietro
minchiate che non lo rendevano felice. Avrebbe fatto solo ciò che desiderava e
lo faceva stare bene.
Si
crogiolava tra una Marlboro e l’altra in pensieri esistenziali, quando il
telefono squillò per un codice rosso in pronto soccorso. Era il caso di un
paziente “normale”, senza febbre o sintomi respiratori. Si trattava di arresto
cardiaco che nulla aveva a che vedere con il coronavirus. Ma scese imbracato
con ciò che riuscì a racimolare senza intaccare l’esigua scorta per le urgenze
COVID accertate.
— Che
succede?
— Un IMA.
— Laringo e
tubo — ordinò perentorio Piergiorgio.
Quel codice
rosso aveva una parvenza di normalità. Un caso grave, certo, dove serviva il
sangue freddo e il cinismo di chi, come lui, era nato e viveva di scariche di
adrenalina. Era la sua professione e nessuno poteva togliergliela.
—
Adrenalina, dài!
Piergiorgio
manteneva la calma, si esaltava nei casi spinosi. Gli piaceva stare in mezzo al
caos dell’emergenza e dirigere la nave, mentre tutti pendevano dalle sue
labbra. Un uomo solo al comando. Si sentiva Marco Pantani su l’Alpe d’Huez e
durante tutta la rianimazione cardiopolmonare la paura del coronavirus lo
abbandonò e si sentì di nuovo un anestesista-rianimatore. Ma non tutte le fiabe
hanno il lieto fine, e quell’arresto cardiaco, scaraventato dal 118 in sala
rossa, era finito male. Il rianimatore non è Dio. È fatto di carne e ossa. E il
cuore di quel paziente non era ripartito. Piergiorgio si tolse i guanti,
rimosse il tubo orotracheale e si sedette su uno sgabello.
— Chiamatemi
i parenti — disse. Era sempre compito suo dare la triste notizia.
— Quali
parenti? — chiese la collega del pronto soccorso, truccata, pettinata e
perfettamente impupata nel suo camice bianco. In pratica non aveva alzato il
culo dalla sedia. In fondo c’era il rianimatore.
— Quelli del
paziente. Dobbiamo comunicare l’exitus. — Piergiorgio era stranito per la
domanda.
— Non può
entrare nessuno. Siamo in pandemia.
— E la salma?
— Vai in
obitorio. Ci penseranno le onoranze funebri.
Piergiorgio
si alzò. Trattenne un singulto. Si stava rincoglionendo. Marina aveva tirato
fuori una parte di lui che non conosceva, sepolta da trentasei anni di inverno.
Lui era il dottor Morfina, cinico e freddo rianimatore di provincia. Eppure una
lacrima prese possesso della sua guancia al pensiero che il paziente sarebbe
morto solo, senza un amico a vegliarlo per l’ultima volta, né un funerale per l’ultimo
estremo saluto.
Piergiorgio
non credeva in una vita dopo la morte, né in un dio o nelle entità sovrannaturali.
Ma alla morte, con cui tutti i giorni conviveva, aveva sempre dato dignità. Era
stato il primo insegnamento del suo Maestro, disperso anche lui tra le sabbie
del tempo. Gli venne in mente proprio lui, il Maestro, e la dottrina che andava
aldilà della tecnica e della farmacologia: l’idea di anestesista-rianimatore, la
figura che sta in mezzo al paziente, al chirurgo e ai pazienti, e coordina
eventi eccezionali e drammatici. Sempre nella merda, a togliere le castagne dal
fuoco, con ferie arretrate che non avrebbero mai smaltito, gli
anestesisti-rianimatori dovevano al coronavirus la visibilità che negli ultimi
vent’anni non avevano avuto.
Un’altra
lacrima.
Ora basta, ecchecazzo!
Fumò una
Marlboro e resettò il software. Era ora di tornare cinico e freddo.
Grazie all’ultimo
turno e all’isolamento una cosa l’aveva capita: l’unica vera ricchezza è il
tempo. Aveva un desiderio: riempire l’ufficio ticket di Marina di fiori, ma era
tutto chiuso.
— Dannato
DPCM! Non mi fermerai.
Si ricordò
che la sua vicina di casa, che non lo credeva nemmeno laureato, anzi, pensava
che di professione facesse l’anestetista
e si dedicasse a eradicare bulbi piliferi (probabilmente avrebbe guadagnato di
più), aveva un piccolo giardino con delle meravigliose rose rosse e tulipani da
fare invidia agli olandesi. Li avrebbe presi a titolo di risarcimento dopo
tanti anni di soprusi psicologici. Il problema era Spritz, che nel caso
specifico non si trattava di una bevanda alcolica, ma un volpino nano bianco e cacacazzo! Abbaiava per partito preso.
Anche col canuzzo aveva un conto in
sospeso. Ogni santo giorno alle sette in punto iniziava ad abbaiare senza
motivo, e se durante l’inverno con le imposte chiuse poteva fare quello che
voleva, in estate essere svegliati ogni mattina alle sette era davvero una
bestemmia. Piergiorgio aveva ovviato in un recente passato con secchiate d’acqua
ripetute, che avevano maldisposto l’animale nei suoi riguardi. Come poteva fare
a scavalcare il cancelletto e recuperare (a titolo di risarcimento, sia chiaro!)
i fiori per la sua amata senza incorrere nell’aggressione del tremendo mastino?
Lo sconforto
durò un istante, una rianimatore trova sempre il modo per ovviare agli
imprevisti.
Un tozzo di
pane intriso di benzodiazepine e dieci minuti di attesa bastarono per farlo
cappottare. Piergiorgio controllò che il torace di Spritz si muovesse, non
voleva averlo sulla coscienza e non voleva fare la respirazione bocca a bocca a
un volpino malefico.
Rasò a zero
le rose e i tulipani e corse via. Un fioraio non avrebbe fatto di meglio. Erano
le diciassette quando si presentò all’ufficio ticket, profumato e parato come
se dovesse andare a cena fuori nel miglior ristorante di pesce della zona. Teneva
in mano i fiori come un trofeo.
Marina era
lì, seduta al suo posto, raggiante e con un meraviglioso broncio da bimba impertinente.
Piergiorgio non desiderava altro che lei.
— Alza gli
occhi, alza gli occhi… — mormorò, sperando che le sue parole fossero magiche.
Gli
anestesisti hanno i superpoteri e Marina alzò lo sguardo dal pc e lo vide.
I loro occhi
si incrociarono e furono fuochi d’artificio.
Lei sorrise
e lui ottenne ciò che desiderava per scacciare via il dolore a cui assisteva
ogni giorno. Aveva bisogno del suo sorriso, incastonato nel volto dai
lineamenti delicati.
Lei uscì di
corsa dall’ufficio e si lanciò a baciarlo, fregandosene dei colleghi che la
osservavano e di tutti gli altri medici, infermieri e OSS che avrebbero
ricamato pettegolezzi sul loro conto.
— Sono per
me?
Piergiorgio
arrossì. Un anestesista non si emoziona mai, ma il suo sistema neurovegetativo
era proprio andato. Marina con il suo sorriso lo aveva rivoltato come Primo
Carnera aveva fatto con Jack Sharke nel’33.
— Sono
meravigliose.
Piergiorgio
non riusciva a spicciare una parola.
In quel momento
passò Umberto Desiderio. Il suo sguardo da squalo famelico li osservò. Piergiorgio
notò una smorfia sul volto del collega. L’istinto fu di controllare in tasca se
avesse o meno il chiodino d’acciaio per la sua missione rimandata.
Ma l’idea
morì ancor prima di nascere, perché Desiderio vacillò. Si appoggiò al muro,
alzò di nuovo lo sguardo verso Marina e Piergiorgio, poi si piegò sulle gambe e
stramazzò al suolo.
—
Piergiorgio, aiutalo! — disse Marina.
— Ma sei
sicura che sta male?
— Presto,
presto!
— Starà
fingendo uno dei suoi soliti malori, come fa sempre in sala operatoria!
— Sta male
davvero!
— Io non
sono in servizio.
— E allora
chiama sopra!
— Va bene,
mi farò portare l’eparina. Ma dirò di fare piano, siamo in pochi, non vorrei
che qualcuno si facesse male correndo!
Piergiorgio ripensò ai fiori. Chissà se la sua vicina aveva anche qualche crisantemo da prestargli…
Piergiorgio
lasciò che la stanchezza lo cogliesse impreparato. Bevve l’ultimo
sorso di birra Messina cristalli di sale e accese una Marlboro. Il
campanello squillò senza preavviso, rompendo il silenzio grazie a
cui aveva trovato il suo equilibrio mentale, tra il pensiero di
Marina e una FFP3.
Voltò
lo sguardo verso il campanello. Non poteva aver suonato. Se l’era
immaginato. Non aspettava nessun corriere. Non aveva una fidanzata.
Sua madre era rinchiusa a Cosenza e non poteva muoversi. E i suoi
amici sgattaiolavano come topi dagli appartamenti per fare la spesa
una volta a settimana (dichiarata) o portare il cane a fare la pipì
ventiquattro volte al giorno.
Accese
la Marlboro e di nuovo il campanello squillò. Non era un’illusione.
Odorò la sigaretta: era tabacco.
— Chi
è? — chiese
al citofono.
— Sono
Marina.
Che
ci faceva sotto casa sua?
Spense
la sigaretta. Spazzò via dal divano le bottiglie di birra e le altre
cianfrusaglie.
Marina era andato a trovarlo in barba a tutti i DPCM, ordinanze,
sindaci metropolitani e disposizioni di servizio. Il suo cuore si
tuffò in una piscina ricolma di miele. Rassettò in
pochi minuti, gettando tutto nella pattumiera. Poi volò in bagno per
una spruzzata di Sauvage. Odorò le ascelle: potevano andare! Non
aveva tempo per cambiarsi. I passi di Marina sul pianerottolo si
facevano sempre più vicini. Prese un respiro profondo e aprì la
porta nel momento esatto in cui la donna stava dinanzi a lui. Era
fantastica. La mascherina le copriva il naso e la bocca, ma gli occhi
brillavano di una luce primaverile.
Piergiorgio
restò immobile, imbambolato come quando aveva visto La Venere di
Botticelli agli Uffizi di Firenze e non si era mosso per parecchi
minuti, incantato da tanta bellezza. Una sensazione che ti paralizza,
non riesci a parlare e respiri solo perché è un processo
involontario.
— Posso
entrare?
— Certo.
— Piergiorgio rinsavì, poi si spostò, indicando il piccolo
salotto.
— Ti
posso offrire qualcosa? — chiese, togliendo l’ultimo numero di
Dylan Dog dal divano.
Marina
si accomodò con eleganza. Il suo profumo era un uragano. Il cuore di
Piergiorgio galoppava, sembrava Furia
il cavallo del West.
Si ricordò che il frigo era vuoto, ma una bottiglia di Valdobiadene
lo
salvò in calcio d’angolo.
— Fai
tu — disse la donna, mentre lo scrutava.
Piergiorgio
stappò la bottiglia e poi disse: — A cosa brindiamo?
— Alle
parole che mi hai scritto. Sono bellissime.
Sono venuta
per dirtelo di persona. Non mi andava di scrivertelo in un sms!
— Marina,
io…
Piergiorgio
si avvicinò. Gli occhi di lei erano languidi e le labbra, coperte da
un rossetto rosso fuoco, umide e sensuali.
— Piergiorgio,
io…
E
si fici a frittata.
Lui
le prese le guance tra le mani e la baciò, e pensò che quello era
per lui il primo bacio, come se fino a quel giorno non avesse mai
amato. Si perse nelle distese sconfinate del suo corpo, affrontando
curve repentine e mozzafiato, guidando con una mano sola, mentre
tutt’intorno la casa, il divano e la città stessa scomparivano.
Insieme a lei, in quel connubio di corpo e mente, pazzo e sregolato,
si sentiva finalmente parte dell’universo.
Pace.
E
la primavera era arrivata, puntuale. E aveva scacciato via l’inverno
gelido che lo aveva investito.
E
chi se fotteva del virus cinese!
Che
non era solo sesso lo aveva compreso subito. Sotto l’involucro
(meraviglioso) c’era qualcosa che lo attirava ancora di più: un
ciriveddu
e un cuore.
Da
quella sera niente sarebbe stato più come prima. Il cibo non avrebbe
avuto lo stesso sapore e persino la luna e le stelle avrebbero
brillato in maniera diversa.
Si
ritrovò solo a riflettere,
mentre iniziava il suo turno di notte. E pensò
che si era rincoglionito davvero. Per Marina aveva preso un muro di
faccia ed era rimasto schiantato.
Ma
poteva mai innamorarsi una come lei di uno come lui?
E
soprattutto poteva uno stronzo patentato come lui innamorarsi?
Era un cinico e freddo rianimatore. E non era previsto che perdesse
la testa per una bionda fausa!
Iniziò
il turno di notte con il suo solito rito scaramantico. Un pugno di
sale ai quattro angoli del nosocomio, una spruzzata sulla testa e una
sulla divisa. Ma sapeva già che sarebbe stata una notte di merda:
all’ingresso aveva incontrato Nadia Canotto, l’ostetrica con le
tette che parevano un salvagente. Per mantenerle in forma ci voleva
il fisico e, nonostante i cinquant’anni, pareva le tenesse ancora
su con reggiseni a forma di balcone in cemento armato. Ma aldilà del
seno prosperoso, Nadia aveva un difetto: portava Sfiga. Ma non sfiga,
bensì Sfiga con la s maiuscola. E non era stato ancora forgiato un
amuleto che riuscisse a contrastare la sua potenza.
— Buonanotte,
dottore!
Buonanotte,
un cazzo! Si era lasciato andare in gesti scaramantici di ogni tipo,
sale in abbondanza, aveva messo in tasca un corno rosso, aveva
accarezzato il ferro di cavallo (eredità di nonno Turi), che teneva
nell’armadietto per i casi disperati. Niente! Non c’era verso.
Quando Nadia Canotto salutava… la notte era persa!
A
fargli compagnia in quella serata di sventure c’era Pippo Bibita:
alto, secco, asciutto. La capigliatura a casco di banane era tenuta
in sesto da una fitta impalcatura costruita con gel e altre
diavolerie cosmetiche.
— Piergiorgio,
guarda che ti faccio vedere! — disse, mostrandogli il cellulare.
— Stiamo
a un metro.
— E
dai… questa è la mia ultima conquista: si chiama Rosalinda.
— Una
mora?
Pippo
annuì.
— Ma
non ti piacevano le rosse?
— Guarda,
ti dirò. Ho iniziato con le bionde, ma sai… sopra erano bionde e
sotto… non sempre, ho continuato con le rosse, ma sai… troppe
lentiggini e poi, sei rianimatore pure tu, i “rossi” hanno sempre
problemi sotto anestesia.
— E
ora sei passato alle more?
Pippo
Bibita annuì.
— Da
quando c’è
il coronavirus dico a tutte che sono rianimatore e… indovina? Me
la vogliono dare. Io dico: no, no, no… e loro invece insistono…
non sai che fatica!
— Immagino.
— Alla
mia nuova fiamma ho regalato l’i-phone 11 pro.
— Già
che c’eri e hai tutti sti soldi da buttare per una storia che
durerà non più di un mese potevi anche regalarle l’11 pro max!
— E
qua ti sbagli, — disse Pippo con uno scintillio febbrile negli
occhi azzurri, — l’i-phone è 11 pro… il max ce l’ho io in
mezzo alle gambe!
Poi
si lasciò andare in una risata fragorosa.
— Indossa
bene la mascherina, non vedi che ti cade?
— Ce
l’ho da sei giorni, la farmacia le dà col contagocce, — rispose
Pippo, tornato serio.
Piergiorgio
pensava a Marina, non voleva togliersi di dosso la sua fragranza.
Mentre
l’orologio in cucina segnava mezzanotte e l’idea di averla fatta
franca alla buonanotte
di Nadia Canotto prendeva forma nella sua mente, squillò il
telefono. Il taglio cesareo, che in tempi di normalità era
considerato una grande rottura di scatole, quella notte fu una
benedizione. E
anche il taglio cesareo successivo non fu visto in maniera ostile. Un
cesareo tira l’altro come le ciliegie. Per fortuna non c’era di
turno Aida Sguaitamatti!
La
mattina seguente Piergiorgio si sentiva mezzo miracolato. Aveva
persino riposato due ore.
Ma
i quattordici giorni di isolamento del primario erano terminati.
Quando vide Muccalapuni entrare in cucina con la sua faccia da
pugile, il corpo tozzo, il collo assente e l’orrendo riporto di
capelli tinti con un colore innaturale che tendeva all’arancio,
comprese in quel momento che la buonanotte
di Nadia Canotto non lasciava scampo.
— Dottore
Morfina, dove va? — disse, con la voce da fumatore incallito.
— Smonto.
— Chiama
Gargamella, ho deciso di rivedere il percorso COVID.
— Ma
se lo avete fatto insieme telefonicamente.
— Sì,
ma vedi? Non ho niente da fare oggi, e quindi rompo le palle.
Gargamella
entrò, trafelato. Occhiali, mascherina e cappellino perfettamente
indossati. Ma il telefono di Muccalapuni squillò con
l’inconfondibile colonna sonora di Nove settimane e mezzo. Era
l’on. Curcuruto.
— Come
dici?
— …
— Non
ci sono ventilatori sul mercato?
— …
— Non
ci sono nemmeno soldi?
— …
— Alla
stampa devi dire che siamo pronti, tranquillo ti copro io. Il
Sisalvichipuò è pronto!
— …
— Mi
serve personale? No, assolutamente no. Ho quattro ragazzi volenterosi
che sono ben felici di prenderla nel didietro.
— …
Muccalapuni
rise.
— … (risata)
— Non
consumeremo lubrificanti, stai sereno!
— … (risata)
— Ne
approfitto per chiederti una cosa? La mia nomina a capo dipartimento…
anticipiamola! Che ne pensi?
— …
— Grazie
grazie grazie.
Muccalapuni
chiuse la telefonata con un sorriso che mise in evidenza gli effetti
della nicotina sul suo apparato dentario e gengivale.
— Allora,
Caposala Gargamella!
— Primario,
mi dica. Noi abbiamo sistemato alla meglio seguendo le sue
indicazioni e quelle del facente funzione.
— Sei
stato bravo, ma dobbiamo rifare tutto.
— Tutto?
— Tutto!
Piergiorgio
si intromise: — Ma guardi che stiamo rispettando le linee guida,
compatibilmente con la struttura.
— Qualcuno
ti ha detto di parlare, Morfina?
— No,
ma…
— Ma
comando io! — Muccalapuni sbatté il pungo sul ripiano della
cucina.
Piergiorgio
e Gargamella si lanciarono un’occhiata rassegnata.
— Modificheremo
due o tre cose. Faremo foto, video, dichiarazioni. Gargamella, chiama
l’ufficio stampa. Noi siamo pronti per l’emergenza COVID.
http://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpg00adminhttp://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpgadmin2020-04-04 18:08:462020-04-04 11:32:53# 8 L'amore ai tempi del COVID19
Piergiorgio
era dubbioso. Era arrivato il momento di dichiararsi apertamente? Una poesia
poteva bastare per conquistare il cuore di Marina? Le bionde fause dai
capelli lunghi, le cosce affusolate e gli occhi ambrati erano le più difficili
da conquistare: nonno Turi glielo diceva sempre.
Era meglio
aspettare che l’isolamento terminasse per riempirla con una vagonata di fiori? L’incertezza
lo perseguitava, mentre consumava una Marlboro dopo l’altra, rinchiuso tra le
mura del suo appartamento da single. Bastava un centimetro un po’ più in là o
un po’ più in qua per mandare tutto all’aria.
Aprì il
frigo: era vuoto. Non faceva la spesa nemmeno al tempo del coronavirus. Mezzo limone ammuffito e
puzzolente era l’unico esemplare superstite della pandemia. Per un istante la
tachicardia investì il torace di Piergiorgio, ma si rincuorò alla vista
dell’unica donna che non lo aveva mai deluso: Birra Messina ai cristalli di
sale. Le dodici bottiglie allineate gli fecero passare la crisi ansiosa che
stava iniziando a montargli dentro.
Stappò la
bionda siciliana e ricopiò con la miglior calligrafia possibile i versi di
Edoardo. Erano profondi. Ma da dove venivano quei pensieri? L’ultima volta che
il suo amico si era espresso senza dire una parolaccia o regalare frasi
maliziose a doppio senso era stato il giorno della prima comunione. Poi si era
rivelato per ciò che era realmente: un depravato. Adesso se ne usciva con una
poesia alla Pablo Neruda. Niente niente che si era innamorato anche lui? Di
chi? Forse un’asiatica?
Piergiorgio
ragionava. Aveva bisogno di un piano per conquistare Marina. Non poteva
presentarsi sotto casa sua e mettersi a recitare la poesia. Avrebbe balbettato
al primo rigo. E poi si sarebbe sentito in imbarazzo. Per non parlare delle
sentinelle (Santa Maria Goretti ed Elizabeth II di Gluecity) che gli avrebbero
fatto i raggi X. Scosse la testa. Non era fattibile.
Tracannò
l’ultimo sorso di birra, mentre i suoi neuroni correvano intorno alla
soluzione. Gli sarebbe servita la sua amica del cuore.
Il problema
principale era rintracciare Evelyn, la romanaccia. Assegnata a un ufficio della
direzione sanitaria di presidio, quindi imboscata, sarebbe stata un’ardua
impresa poterci parlare. Tra una missione, una 104, un permesso retribuito e un
giorno di ferie, rischiava di incontrarla tra non meno di trenta giorni. Lo
sconforto lo colse impreparato, poi lo smartphone squillò. Era l’oroscopo di
Nostradamus, che recitava così: “La
fortuna vi accompagna in famiglia con davvero bei momenti da vivere insieme ai
vostri figli o parenti stretti come nonni o zii, cugini, ecc…”
Minchiate!
Era single, isolato, mezzo depresso e con due mongolfiere in mezzo alle gambe
che presto gli avrebbero fatto prendere il volo.
Continuò a leggere:
“Il fato può portarvi qualcosa di buono
soltanto se avete seminato in passato e quindi si tratterà comunque di una
fortuna meritata piuttosto che caduta dal cielo. Ottime giornate quelle di
venerdì e sabato per provare a giocare ad una lotteria ma ricordatevi di
giocare il minimo indispensabile.”
Primo: la
lotteria era stata bloccata dal governo. Secondo: venerdì era troppo lontano e
non pensava che il coronavurs gli avrebbe lasciato scampo. Terzo: che cosa
aveva mai seminato di così importante nella sua vita? Non aveva mai nemmeno
avuto un orto! L’oroscopo era un’emerita stupidaggine, creata per i creduloni
come lui.
Riprese a
fumare. Guardò l’ora: il suo turno di guardia iniziava tra meno di mezz’ora. Si
vestì di tutto punto e si scapicollò in ospedale. Aveva lasciato la sua
utilitaria con una ruota in un’aiuola. Le ferie erano state revocate a tutti e
quindi trovare un parcheggio al Sisalvichipuò Hospital era diventato più
difficile che vincere la lotteria Italia.
Tutti i
dipendenti del nosocomio erano pervasi dalla folle paura di infettarsi. Non si
parlava, non si scherzava e si comunicava a gesti.
Piergiorgio era
imbracato al punto che sembrava un Talebano e difficilmente riconosceva i
colleghi di lavoro tra mascherine e cuffiette.
Il Sisalvichipuò
aveva subito la mutazione tanto temuta, dettata dalla sempre più diffusa
patologia del nuovo millennio: il cacazzo.
— Sei tenuta a damme la mia mascherina,
capito? Nun mene frega un cazzo se non ne avete! Io nun ce vengo a lavorà se
non mi date i dippiì!
Il volto di
Piergiorgio si illuminò. Non riusciva a vedere Evelyne, ma sentiva la sua voce.
Era lei: la grandissima scassapagghiaro e attaccabrighe romana!
Accelerò il
passo. Doveva incrociarla. Voltò l’angolo e se la ritrovò davanti. Stava
litigando con Gianna Apnea, che utilizzava i suoi modi garbati per abbassare i
toni della discussione.
— Direttore, nun me ne frega niente di niente.
Echecazzo!
— Ciao —
s’intromise Piergiorgio.
— Dottore
Morfina, per favore, non si metta in mezzo anche lei, che già stamattina in
questa direzione facciamo scintille.
— Che vuoi pure te? — Evelyne era un toro nell’arena
pronto a caricare.
— Non ho
potuto fare a meno di ascoltare e posso risolvere io il problema della signora
Evelyne — precisò Piergiorgio, rivolgendosi al direttore sanitario, prima di
ruotare lo sguardo verso la ragazza.
— Signora sarà tu sorella.
— Dottore
Morfina, se ha la soluzione, se la veda lei. — Gianna Apnea voltò le spalle e
si allontanò, mettendo in mostra il suo lato b, che non aveva niente a che
vedere con quello di Marina. Il fondoschiena del direttore sanitario, più che
parlare, assomigliava a una televisione vecchio modello con cinescopio!
— Allora, dimme come mi puoi aiutà, a me serve
una mascherina, sennò giuro che a quella le tiro i capelli e glieli faccio
magnà.
Piergiorgio
ripensò all’oroscopo. Ecco la sua semina: avrebbe procurato una mascherina a
Elevelyne.
— Te la do
io, conosco il nascondiglio segreto di Gargamella.
— Annamo, a chi stamo aspettanno?
Piergiorgio
ed Evelyne, una moretta dall’aria incazzusa e l’occhio sveglio, raggiunsero la
stanza del caposala del reparto di Rianimazione.
— Ce vedono tutti. Sei proprio un cojone!
— Statti
muta almeno un secondo.
— Nun è che sei juventino? A me i juventini me
stanno sur caz…
— Ti ho
detto stai zitta, sennò ci fai sgamare!
— Ma sei juventino?
Piergiorgio
la ignorò. Era juventino fin dentro il midollo. Nel suo cuore c’era tatuata una
“J” e se si fosse tolto la camicia il tatuaggio della Vecchia Signora sarebbe
scintillato, ma evitò di rispondere. Controllò il corridoio: era deserto. In
cucina intravide la sagoma di Pippo Bibita, giovane anestesista neo-assunto,
bello e dannato. Infermiere, ostetriche e dottoresse avrebbero fatto a cazzotti
per lui. Si vociferava che fosse ben dotato. Evitò di incrociarlo per non
sorbirsi il lungo elenco delle sue innumerevoli conquiste.
Piergiorgio
si muoveva rasente al muro e si rivedeva in un film di 007. Per un attimo si
sentì Sean Connery, ma poi si voltò, dietro di lui c’era Evelyne. Si rese conto
che non era Ursula Andress e che non si trovavano su una meravigliosa spiaggia,
ma bensì in un reparto di Rianimazione ai tempi del COVID19.
Raggiunsero
la stanza di Gargamella. Si fiondarono dentro. Con maestria Piergiorgio aprì il
vecchio e sconquassato armadietto del caposala e con somma soddisfazione trovò
un pacco intonso e sigillato di mascherine chirurgiche. Ne afferrò due, poi
scappò via, seguito dalla romanaccia.
— Grazie, Pergiò, sei stato n’amico.
Hai rischiato per me e questo nun lo dimenticherò.
— Figurati.
— Se posso fà qualcosa pe’ te, sai dove
trovamme.
Evelyne gli
voltò le spalle per tornare in direzione a sbrogliare carte, ma dopo la semina,
c’è sempre il raccolto. Lo diceva l’oroscopo.
— Effettivamente
volevo chiederti una cosa — disse Piergiorgio.
— Dimme pure. — La donna gli piantò
addosso i suoi occhi picei.
— Sei la
miglior amica di Marina?
Evelyne
annuì.
— Ho bisogno
che le fai avere questa. — Piergiorgio le porse una busta.
La mora la
prese e la rigirò tra le mani. La mise in controluce cercando di scorgerne il
contenuto — Che cos’è? — chiese.
— Una cosa
che vorrei leggesse Marina.
— Perché nun poi dargliela te?
— Insomma… è
personale… intima…
— Me sta a salì la glicemia. Nun me dì che è una
lettera d’amore?
Piergiorgio
alzò le spalle e fece segno che ci aveva quasi azzeccato.
— Preparame l’insulina. Sarà mica ‘na poesia?
Evelyne si
diede una manata in fronte.
— Se ci tieni gliela do oggi stesso, ma nun te
voglio illudè, l’amica mia è cotta, ha la testa tra le nuvole, gli occhi
sognanti, il cuore nello zucchero…
— Non ti ha
parlato di me? — chiese Piergiorgio.
— Nun me ha detto niente di niente. E appena
me dice che s’è ‘nnamorata, glie spacco la capoccia!
— Ma scusa
che hai contro l’amore? — Piergiorgio proprio non capiva.
— Voi uomini siete tutti ‘na massa di stronzi.
Ma te voglio aiutà, oggi stesso le darò la tu’ busta.
— Grazie.
— Nun c’è de che. Ma te posso chiedè io
n’altra cosa?
Piergiorgio restò imbambolato dinanzi alla BMW serie 6 nera fiammante,
parcheggiata dinanzi all’ingresso del Sisalvichipuò Hospital. Si grattò la
testa e corrugò la fronte. Osservò il cielo. La primavera non poteva sapere che
un virus letale e altamente contagioso si spandeva dal nord al sud dello
stivale e mieteva vittime come niente fosse. Il sole splendeva alto in cielo e
riscaldava le sue membra assuefatte. Gonfiò il petto. Si sentiva importante.
Per una volta nell’arco della sua carriera non ragionava più sui turni festivi
o sulle notti insonni, ma aveva assunto quel ruolo che da sempre competeva agli
anestesisti-rianimatori. Altro che medicina dei servizi. Si ripromise di
scrivere una lettera al ministro per far togliere quella dicitura ignobile. Da
un mese ormai i ginecologi, i chirurghi e i vascolari non rompevano con false
urgenze, tranne chi aveva lasciato i libri all’università e non comprendeva il
momento storico che stavano vivendo.
Piergiorgio amava il mare in tempesta. Il suo posto era sempre stato sulla
cresta dell’onda. E tutte le storie d’amore che aveva avuto, i flirt le mezze
toccate di minne erano passi che lo conducevano a lei: Marina, che
rappresentava la metà della sua mela. Sarebbe stata perfezione accanto a lui in
mezzo alla spuma del Tirreno. Lo sentiva. La percepiva aldilà dell’involucro. E
il suo sesto senso non sbagliava mai, sia in sala operatoria, sia quando si
imbatteva nel meraviglioso profumo di Marina.
La BMW era lì e lo guardava con occhi di sfida.
— A noi due — mormorò Piergiorgio, prima di accarezzare il chiodino
d’acciaio.
Umberto Desiderio, questo è per aver cenato con Marina, pensò.
Mosse due passi verso il SUV, controllò che nessuno lo stesse osservando.
Il parcheggio era deserto, vedere gente in giro era utopia; ad eccezione del
quarantenne che faceva jogging con indosso una bella FFP3 e che aveva mandato a
strabenedire qualche minuto prima di varcare la sbarra dell’ospedale.
Stringeva in mano il chiodino appuntito. Era a pochi centimetri dalla
carrozzeria immacolata, pronto a sancire la sua vendetta, ma fu in quel momento
che il suo telefono vibrò.
Chi poteva essere?
Si paralizzò quando lesse il mittente del messaggio: Marina.
Spero di vederti in ospedale. Ho ripensato al tuo invito e ho deciso che a
cena voglio andare solo con te.
Mai buongiorno fu tanto gradito. Si sentì in un fumetto: due ali alle
caviglie lo portarono a un metro da terra. Il sole che prima lo riscaldava,
adesso gli strizzava l’occhio e il cielo azzurro della sua Calabria lo avvolse
in un abbraccio. E si sentì in pace con l’universo. La carrozzeria era salva,
per adesso. L’operazione chiodino d’acciaio non era annullata, ma rinviata.
Desiderio aveva un conto in sospeso… per sempre! Ma in testa gli balenò il
tabellone allo stadio: Morfina 1 – Desiderio 0.
Piergiorgio non rispose all’sms, ma si precipitò dentro e fece la fila al
timbro, poi si diresse all’ufficio ticket. Dietro il vetro Marina era assorta e
non si accorse che lui le andava incontro. I capelli le coprivano in parte il
volto e scendevano morbidi come seta sulle spalle. Si avvicinò così tanto allo
sportello che trasalì quando la signora Anna tossì.
— Buon… buongiorno — disse Piergiorgio, che avvampò. Il suo volto tondo
divenne rosso come un pomodoro cuore di bue.
— Dottore, ha bisogno di qualcosa? Come mai si trova ai piani bassi?
Anna, una mora cinquantenne dal volto gentile e gli occhi scuri e
impenetrabili, sorrideva, sorniona. Piergiorgio capì che lo aveva visto
imbambolato, completamente incantato da Marina.
— No.. No… insomma… passavo di qui…
— Per caso?
Piergiorgio era imbarazzato. Non riusciva ad elaborare una delle sue
proverbiali risposte, che lo avevano sempre tirato fuori dalle situazioni
spinose. Marina era il suo tallone d’Achille.
— Volevo chiedere un’informazione… ma Marina è impegnata.
— Io sono libera. — Anna sorrise.
— Sì… ehm… allora… io… — Piergiorgio iniziò a contorcersi le mani, mentre
l’incendio continuava a divampare sul volto.
— Allora? — Anna sembrava divertita. Si prendeva gioco del rianimatore. Ma
Piergiorgio non riuscì a scriverla nella lista nera di coloro che non avrebbe
intubato durante la pandemia. I modi gentili della donna la annoveravano tra i
salvabili.
— Ecco… sì. Mi serve un ricettario. — Era una proverbiale minchiatuna ca
pala, ma non gli venne in mente altro.
— Gli ambulatori sono chiusi, ma se proprio ne necessita un altro, dovrebbe
consegnare quello vecchio.
— Grazie dell’informazione, sa che faccio? Aspetto che la sua collega si
liberi così mi faccio spiegare meglio.
Anna sorrise e poi mimò un cuore con con indici e pollici.
Piergiorgio sorrise, imbarazzato. Si sentì come se fosse nudo di fronte a
cento donne.
— Senta, posso chiederle una cortesia? — sussurrò poi, — non dica a nessuno
che sono innamorato. Sono un cinico, freddo e stronzo rianimatore di provincia.
Potrei rovinarmi la piazza.
Anna rispose con un occhiolino, poi disse: — Continuo io col signore, il
dottore ha bisogno di parlare con te.
Marina alzò lo sguardo dalle impegnative. Il broncio da bambina viziata
lasciò il passo a un sorriso delizioso. Piergiorgio fu colto dalla voglia di
afferrarle il volto e stamparle un bacio (sbattendola al muro!), ma si limitò a
dire: — Ciao.
— Ciao — rispose Marina.
Quella sua voce era l’unica che voleva sentire tutte le mattine quando si
svegliava. Piergiorgio rinsavì. Si era rincoglionito per due occhi da cerbiatta
e un culo parlante (che quella mattina non aveva potuto ammirare)! Non poteva
essere solo quello.
— Sono passato a salutarti.
Anna li osservava con occhi da sentinella. Piergiorgio si sentì squadrato e
controllato e si mise sull’attenti, come se si trovasse in una caserma e fosse
sotto esame dal suo superiore.
— Grazie del pensiero.
Un silenzio imbarazzante frugava nella mente di Piergiorgio.
Piergiorgio rafforzò il saluto con un cenno della mano e raggiunse il
reparto, saltellando.
Il clima che regnava in Rianimazione era di allerta e tensione. Le
discussioni sempre le stesse: tamponi che non arrivavano, ventilatori limitati,
maschere da sub modificate per CPAP.
Gargamella, sempre più incazzato col mondo, cercava soluzioni: vecchi
ventilatori diventavano funzionanti, attacchi dell’ossigeno venivano installati
alle pareti, e poi percorsi sempre nuovi per l’emergenza. I casi in Calabria
aumentavano: dovevano essere pronti. La paura di poter contrarre la malattia
aleggiava, ed era peggio dei turni massacranti e delle ferie revocate. Tutti
avevano qualcosa da perdere. Il coronavirus aveva azzerato le certezze,
alimentato l’angoscia e resettato tutte le abitudini.
Piergiorgio iniziò il turno di emergenza, sperando che non arrivassero
COVID. Aveva trovato Marina e si era imbattuto in qualcosa che soltanto una
volta si incontra nella vita: l’amore. E non voleva rinunciarci. Mai più.
Piergiorgio si isolò, altrimenti l’ansia lo avrebbe assalito. Un po’ di
sano cazzeggio su Facebook lo avrebbe tranquillizzato. I suoi amici si erano
trasformati tutti in provetti panettieri e pizzaioli, per non parlare di una
grossa fetta di analfabeti che si erano immedesimati in virologi di grido.
Persino l’onorevole Curcuruto continuava a postare minchiate. Passò oltre. Non
aveva voglia di incazzarsi con politici e burocrati.
La sua attenzione fu catturata da un articolo: l’ospedale di Vattelapesca,
nel cuore della Lombardia, era in affanno. Mancavano rianimatori. Per un
istante pensò che era il momento di partire e dare una mano lì dove c’era
bisogno. Che ci faceva rinchiuso in un ambulatorio come un codardo? Ma il suo
posto era lì: al Sisalvichipuò Hospital.
E doveva pensare alla sua gente.
Una lacrima gli rigò la guancia. Al Vattelapesca lavorava Oreste
Trepalletreteste, suo amico e collega. Compose il suo numero e lo chiamò. Si
salutarono, commossi.
— Come stai?
— Sono sfinito. Lavoriamo giorno e notte. Combattiamo un nemico invisibile.
— Sto vedendo sui giornali e in TV.
Dopo una breve pausa Oreste chiese: — Com’è la situazione laggiù?
— Speriamo di contenere, altrimenti non avremo scampo.
Piergiorgio immaginò Oreste annuire.
— Ve lo auguro. Questa pandemia è una tragedia senza precedenti. La gente
muore sola, lontana dagli affetti. Senza un amico o un parente che possa
stringergli la mano. Senza nessuno che pianga al funerale.
Oreste trattenne un singulto.
— Come posso aiutarti?
— Non c’è modo. La stanchezza dopo diciotto ore si sente. Non abbiamo più
posti letto e ieri… ieri…
— Cosa è successo? — Piergiorgio non nascose l’apprensione.
— Ho dovuto scegliere se intubare un giovane o un altro meno giovane.
— Meno giovane? Che intendi?
— Tra un quarantenne e un cinquantenne.
Piergiorgio non riuscì a replicare. Non avrebbe mai voluto trovarsi in
quella situazione.
— Non è stato facile… — riprese
Oreste.
— Cosa possiamo fare?
— Prega, amico mio.
— Io non credo a niente, lo sai.
— Nemmeno io.
— E allora?
— Trova la fede, altrimenti trova qualcuno che preghi per te.
La fine del turno arrivò. E fu sera. Solo nella sua casa le ombre del
coronavirus aleggiavano insieme alle parole di Oreste. Per Piergiorgio non ci
fu modo di prendere sonno. La
radiosveglia segnava le due quando lo smartphone squillò. Era un sms di Edoardo
e recitava così: ecco la poesia per la tua bella.
Seguì una foto col testo.
Il tempo. Vorrei donarti il tempo
e sorrisi senza pianti,
giornate senza nuvole per passeggiare
e piovose per fare l’amore,
vorrei regalarti la felicità
e la vita che c’è nello sguardo acerbo
di un bambino,
Piergiorgio rimase stupito. Anche Edoardo aveva un animo delicato e
sensibile, nascosto dietro la scorza dura da scrittore underground.
http://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpg00adminhttp://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpgadmin2020-04-01 17:02:402020-04-01 17:02:43#6 Sms, conversazioni telefoniche e un amore sconsiderato
Dopo ventiquattrore di lavoro sotto stress Piergiorgio desiderava solo
dormire: spaccare il letto fino a farsi venire mal di schiena. Ma la stanchezza
era troppa. Era rimasto per ore seduto in mezzo a letto con la compagnia delle
sue fidate Marlboro. Il pacchetto scivolava via, una sigaretta dopo l’altra.
Aveva provato a leggere persino il libro scritto da una coppia di
blogger/influencer che cantavano, sparavano minchiate, si interrogavano sulla
fine dell’universo, ma, nonostante fossero inetti e presuntuosi, li vedeva su
tutti i canali tv ed erano ospiti in radio, ma soprattutto alzavano fior di
euro senza fare una mazza. Il libro era a colori e cartonato, ma soprattutto
venduto alla modica cifra di venticinque euro. Le pagine erano piene zeppe
d’immagini in alta definizione che ritraevano questi due minchioni che non
facevano altro che raccontare la loro vita. Si può sapere che se ne fanno i
lettori di ciò che facevano durante il giorno? Le cinquecentomila copie vendute
e il boom al botteghino per il loro film di Natale dimostravano che l’italiano
medio era analfabeta e preferiva un influencer a Moravia.
Piergiorgio non era un grande lettore, ma se proprio ne aveva voglia,
andava pazzo per le storie noir. E allora come mai teneva quel libro
(chiamiamolo così giusto per identificare il bene, ma i libri sono altra cosa)?
Piergiorgio era stitico e quindi con due paginette al mattino, svuotava
l’intestino senza colpo ferire. Quel pomeriggio, mentre le campane della
parrocchia suonavano i rintocchi delle quindici, provava a utilizzarlo come
sonnifero, ma ottenne invece l’effetto per cui era stato acquistato: una
telefonata intercontinentale sul water.
Si vestì di tutto punto, piazzò sulle orecchie gli elastici della
mascherina chirurgica e approfittò della giornata assolata per fare due passi:
fanculo il DCPM. Edoardo abitava a due isolati di distanza e aveva bisogno di
vederlo per recuperare l’FFP3 con cui avrebbe conquistato il cuore di Marina.
La sera prima, mentre lui scorrazzava in ambulanza vestito come un
astronauta, il premier Conte aveva chiuso anche i bar e tutte le attività
commerciali ad eccezione di farmacie e supermercati. Sarebbe stata dura, ma di
fame non sarebbero morti.
Nel tragitto che da casa lo conduceva dall’amico, non incontrò anima viva,
ad eccezione di una BMW serie 6 nera fiammante, che sfrecciava sulla
nazionale. Riconobbe subito Umberto
Desiderio alla guida: toscano in bocca e l’aria da chi non ha bisogno di niente
e nessuno.
— Coglione, — disse a voce a alta, rivolgendosi alla strada ormai deserta,
— se mi capiti sotto mano, non ti intubo!
Al solo pensiero che Umberto potesse insidiare la sua Marina gli prese un
nervoso che dai capelli raggiunse la punta dei piedi. Accese l’ennesima
Marlboro e iniziò a sbuffare come la raffineria di Milazzo. La prima cosa che
suscitò la BMW di Umberto fu un chiodino d’acciaio. Lasciò i neuroni liberi di
circolare senza freni e immaginò la sua mano che teneva nascosto un simpatico
chiodino dalla testa tonda e l’estremità affilata, poi sognò di passare accanto
all’automobile di Umberto. L’immagine finale di una bella
linea retta sulla carrozzeria nera luccicante lo fece sorridere. Dopo ore di
tachicardia e malessere, il groppo in gola si allentò. Ma a farlo star meglio
ci pensò anche il suo amico scrittore Edoardo, che, affacciato al balcone del
primo piano, riguardava un dattiloscritto, stringendo una stilo in mano.
—Ehi, scrittore! — gridò Piergiorgio.
Edoardo si sporse.
— Amico – rianimatore. Sei venuto per la mascherina?
— Apri il portone e accendi la macchinetta del caffè, non dormo da più di
ventiquattrore e sono un cane pronto ad azzannare.
Edoardo si toccò la tempia con l’indice più volte.
— Sei tutto scemo! Se da un normale cittadino sto lontano un metro… con
te rischio di infettarmi anche al telefono.
— Ma che dici? Apri questa porta!
— Aspetta…
Edoardo entrò in casa. Piergiorgio si avvicinò al portoncino d’ingresso,
aspettando lo scatto della serratura. Trascorsero i minuti e, visto che
dall’interno dell’abitazione non si udiva alcun rumore, si accomodò sullo
scalino d’ingresso e accese una Marlboro.
— Piergiorgio! — disse Edoardo, — dove sei finito?
— Mi hai lasciato fuori! Che combini?
Edoardo, attrezzato di tutto punto, mise in un cestino di vimini un paio di
guanti, un bicchierino di caffè, un cioccolatino fondente e una mascherina
FFP3.
— Non dire che non sono ospitale.
Piergiorgio imprecò contro la Cina, i cinesi e pure coreani, giapponesi e
tutto il sudest asiatico.
— Al caffè col mio miglior amico non posso rinunciare. E poi lo sai?
Piergiogio lo guardò con aria interrogativa.
— Sei un rianimatore e se fino a ieri eri l’ultima ruota del carro, adesso
potrei aver bisogno di te.
— Lo dici perché te la fai sotto dalla paura, — disse Piergiorgio, mentre
indossava i guanti.
— C’è una pandemia…
— Domani avrete dimenticato e tornerete a riempire il culo a mediocri
chirurghi e ginecologi affamati di denaro… e noi torneremo a lavorare
nell’ombra. In fondo facciamo parte della medicina dei servizi.
— Sei perspicace, amico mio! Tornerete dalla fogna da cui vi avevamo
lasciato 30 giorni fa. La serva, serve. — Edoardo sorrise.
Piergiorgio terminò il caffè, tolse i guanti e riprese a fumare. Poi
chiese: — Che mi dici del nuovo romanzo?
— Sono a buon punto. Alla base di tutto il mio lavoro c’è la denuncia del
complotto cinese contro i libri di un giovane scrittore.
— Tu sei pazzo!
— Vedrai… sarà un best seller!
— Notizie dal regista?
— Il primo libro è opzionato, si parla di un cast d’eccezione.
— Ah si… anticipami qualcosa, domani potrei essere con un tubo in gola e
non apprenderei la tua ascesa nel mondo editoriale che conta.
— Sei pronto? Siediti che c’è da avere le vertigini.
— Più che altro le vertigini mi stanno venendo a furia di guardarti dal
basso verso l’alto.
— Cicciolina… un grande ritorno per il cinema di genere.
— Scusami, ma non era tutto incentrato sull’asiatica?
— Dettagli, amico mio! Dettagli! Ci sono prospettive in cui gli occhi a
mandorla non si noteranno!
Piergiorgio era indeciso se ridere o piangere.
— Se lo dici tu… io vado da Marina a portarle la mascherina!
Edoardo si sporse dal balcone. — Marina! Hai una love story e non mi dici
niente?
— Non c’è niente, tranquillo… altrimenti lo avresti saputo!
— Dai… a me puoi dirlo… nemmeno una toccatina di minne?
— Guarda che a me questa ragazza piace assai!
— Marina… aspetta… è la tipa dell’ufficio ticket?
Piergiorgio annuì.
— La bionda fausa col culo che parla?
— Smettila, ti prego… almeno con la donna che mi interessa.
— Sì, scusa. Posso dirti una cosa?
— Certo.
— Hai preso un bel muro di faccia, amico mio. Per non commentare il lato b
di una donna, questa ti deve aver preso le budella e le ha riempite di farfalle
svolazzanti.
Piergiorgio annuì.
— Ho bisogno una mano. Tu sei uno scrittore… puoi buttare giù una poesia?
— Vuoi recitargliela sotto casa?
— Perchè no?
Piergiorgio salutò l’amico, che, dopo avergli promesso una poesia da
manuale del romanticismo, rimase a osservarlo dal balcone del primo piano. I
rapporti umani, le strette di mano, l’affetto e le pacche sulle spalle erano un
ricordo lontano… il virus made in Cina aveva smantellato tutto.
Piergiorgio tornò a casa, salì sulla sua utilitaria in riserva, e raggiunse casa di Marina, che abitava poco distante dalle assolate spiagge di Vibo Marina. Non sapeva quale fosse il suo appartamento, così iniziò a girovagare nelle palazzine. Dopo quasi un’ora di ricerca trovò il campanello giusto: voleva farle una sopresa! Grazie al centralinista, Mimì Gazzettino, che sapeva tutto di tutti era riuscito a farsi dare l’indirizzo di Marina. Peccato che non gli avesse dato alcuna indicazione sull’interno esatto.
Suonò il campanello e una donna si affacciò al balcone. Ormai il portone
non lo apriva più nessuno. I capelli lunghi e scuri le raggiungevano le spalle.
Gli occhi erano nascosti dietro un paio di occhiali da sole impenetrabili. Il
naso aquilino le conferiva l’aspetto austero da professoressa cacacazzo.
Indossava un abito lungo: sembrava Santa Maria Goretti. Le ricordava la sua
docente di Latino e Greco del liceo.
— Desidera? — La donna parlava con il muso stretto e il naso all’insù.
— Cercavo Marina.
— Lei chi è?
— Sono un collega. Marina è in casa?
— Non sono fatti suoi. Vorrei sapere come mai è qui?
— Devo parlare con Marina, se non è in casa proverò a ripassare.
In quell’istante uscì un’altra donna. Era fasciata in un abito elegante
beige. Piergiorgio pensò che stesse andando a una festa.
— Chi è questo tizio? — chiese. Il tono era straniero, ma Piergiorgio non
riuscì a identificarne la provenienza.
— Un collega di Marina — rispose la professoressa, sempre se lo fosse.
— E che vuole?
— Scusate se mi intrometto, ma Marina è in casa? E soprattutto voi chi
siete?
— Giovanotto, — esordì la mora, — io mi chiamo Caterina, sono la sorella di
Marina, e insegno Storia e Filosofia al Liceo.
Questa è ancor più cacacazzo di quella di Latino e Greco, pensò
Piergiorgio.
— E io sono la migliore amica di Marina: duchessa Elizabeth III di
Gluecity.
Mizzica, una dama inglese. Piergiorgio si diede uno schiaffo. Di certo
erano allucinazioni. Quelle due sembravano uscite da un cartone animato.
— Si identifichi.
— Sono Piergiorgio Morfina, rianimatore.
Le due donne si guardarono all’unisono ed entrambe mostrarono una dentatura
perfetta e un sorriso smagliante.
— Perchè non l’ha detto prima? Un rianimatore… che bello! — asserì
Elizabeth, mentre rassettava la frangia bionda cenere, che le copriva la
fronte.
— Vuole che le chiami Marina? — chiese la professoressa.
— Se possibile, le sarei grata, miss… — Piergiorgio si esibì in un inchino
che rappresentava una presa per i fondelli.
— Come mai la cerca, Sir Morfina? — chiese Elizabeth.
— Ho una mascherina da consegnarle.
— FFP3? — chiese la dama inglese, sopresa.
Piergiorgio annuì.
— Deve amarla veramente tanto. Lei lo sa che una FFP3 è per sempre?
Piergiorgio arrossì.
In quel momento Marina si affacciò al balcone. Bella come il sole
d’inverno. Forte come le onde del mare in tempesta. I capelli si muovevano
morbidi, sollecitati da una leggera brezza marina.
— Ciao Piergiorgio! Mi hai trovato!
— Eh sì.
— Come mai?
— Ho la tua FFP3.
Marina portò le due mani alla bocca.
— Non avrei mai pensato che tu potessi compiere questo meraviglioso gesto
nei miei riguardi.
— Figurati… non è niente. Posso invitarti a cena quando il conoravirus se
ne tornerà dal buco da cui è venuto fuori? Magari possiamo incontrarci con un
po’ più di privacy…
— Sono una donna fortunata, ho ricevuto ben due inviti a cena in meno di
ventiquattr’ore.
Piergiorgio la guardò stranita
— Posso sapere chi è l’altro pretendente?
— Ieri al bar del Sisalvichipuò Umberto Desiderio è stato più veloce di te.
Il volto di Piergiorgio si rabbuiò. L’operazione chiodino d’acciaio
diventava sempre più una questione di vitale importanza.
— Umberto è un caro amico.
— Ah sì? Non lo sapevo…
Caro amico. Chissà che voleva dire: caro?
— Ci conosciamo da anni. Siamo già stati parecchie volte a cena insieme…
Piergiorgio lasciò correre il discorso. Desiderava soltanto rinchiudersi a
casa e meditare la vendetta. Salutò le sentinelle, che durante tutta la
discussione erano rimaste a osservarlo.
— La mascherina te la lascio giù
nelle scale…
— Sei stato molto carino. Non lo dimenticherò.
Che voleva dire che erano andati a cena insieme? E soprattutto c’era stato o no il dopo cena?
http://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpg00adminhttp://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpgadmin2020-03-31 19:46:262020-03-31 19:58:32#5 Una FFP3 è per sempre
Il conoravirus avrebbe
causato molte vittime, di questo ormai Piergiorgio ne era certo. Ma al di là
degli infetti e delle polmoniti intrattabili, molti sarebbero finiti sotto le
grinfie dei becchini per una patologia tanto diffusa quanto misconosciuta: il cacazzo.
Anche Piergiorgio se la
faceva sotto dalla paura. Non solo per quella di infettarsi e di finire con un
tubo in gola a causa delle venti (dichiarate) sigarette al giorno, ma soprattutto
lo inquietava il terrore di non potersi recare da Nonna Veronica, che lo
riempiva di prelibatezze. Il freezer già iniziava a svuotarsi e, se l’isolamento
continuava, sarebbe finita a mozzarella e scatolette. Altro che parmigiana di
melenzane. I suoi addominali erano in pericolo. Ma meditava un piano b: nonna
Veronica poteva tranquillamente lasciare i manicaretti da congelare
nell’ascensore, evitando di correre il rischio di infettarsi. Senza la sua
pancia da rianimatore non si sentiva se stesso. Avrebbe fatto questo sacrificio
per tutelare l’immagine di tutta la categoria. Si ripromise di chiamarla nel
momento in cui i viveri fossero davvero ridotti all’osso. Meglio non rischiare
la salute della nonna. Si sarebbe rimesso in carreggiata una volta fronteggiata
la pandemia.
Piergiorgio, come ogni
sacrosanto giorno, varcò la soglia del Sisalvichipuò Hospital, ma quella
mattina trovò una bella novità: nella stanzetta del timbro si entrava uno alla
volta e bisognava mantenere un metro di distanza gli uni con gli altri. Dopo dieci
minuti di attesa sfoderò il cartellino e iniziò ufficialmente il turno sotto
gli occhi della dottoressa Gianna Apnea, il direttore sanitario di presidio
fresca di nomina, premiata per le sue grandi qualità… sotto la scrivania
dell’On. Curcuruto prima e dell’assessore regionale alla sanità dopo. Senza
considerare le male lingue che urlavano a gran voce un suo passaggio sotto lo scrittoio
(piccolo, ma comodo) del direttore generale. La dottoressa Apnea, mascherina
sotto il naso, occhialino da professoressa e capello fresco di piega (con le parrucchiere
chiuse Piergiorgio non si capacitava di cotanta ostentata perfezione) vigilava
sul rispetto della distanza di sicurezza con un bastone lungo un metro.
— Dottore Morfina, dov’è
la sua mascherina? Perché ne è sprovvisto?
La voce sgradevole lo
riportò alla realtà, trascinandolo via dal sogno che stava facendo: la tavola cunzata a casa di Nonna Veronica.
— Direttore, buongiorno.
Non credo che il mio reparto sia fornito di mascherine in abbondanza. Se ne
troverò una, la indosserò.
— Oggi sono arrivate ben
cinquanta mascherine. Non si lamenti
e rispetti le regole.
Piergiorgio annuì. Non
aveva voglia di iniziare il turno polemizzando.
Si voltò e squadrò la
dottoressa Apnea: non si sarebbe fatto sfiorare nemmeno con un dito, né sotto,
ma tantomeno sopra la scrivania.
Arrivato alla fine del
corridoio, anziché continuare dritto verso la scala che lo avrebbe condotto in
Rianimazione, svoltò a destra per passare dinanzi all’ufficio ticket. Marina
era lì, seduta alla sua postazione. La osservava. Era bella. Una bionda (fausa) con occhi da cerbiatta. Non
riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. La donna era impegnata a discutere
con una paziente gravida che doveva fare una visita in intramoenia con la sua
collega ginecologa Aida Sguaitamatti, ricercatissima dalle pazienti, ma da
evitare come la peste per il suo scarso appeal con i libri universitari: non li
aveva mai aperti.
Quando Marina alzò gli
occhi dalle scartoffie i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri.
Piergiorgio sentì che le gambe gli stavano crollando. Quando lei gli regalò un
sorriso, lui alzò la mano destra e la salutò. Stava per tornare indietro e
imboccare il corridoio per raggiungere il suo reparto, ma si sentì chiamare. —
Dottore, dottore.
Piergiorgio si voltò.
Era lei. Ebbe il dubbio che si stesse riferendo proprio a lui. Un anestesista
che veniva chiamato “dottore” era cosa insolita. Ma i tempi stavano cambiando.
— Sì… sì… sono io.
Piergiorgio, cazzuto,
cinico e stronzo rianimatore, iniziò a tentennare e si meravigliò di se stesso:
non era da lui.
— Dottore Morfina, lei è
un anestesista?
— Sono rianimatore, sì.
Piergiorgio non
apprezzava essere etichettato come quello che addormentava e svegliava i
pazienti. Il suo lavoro era ben altro. Definirsi rianimatore lo faceva sentire
più figo, specie in tempo di coronavirus.
— Volevo chiederle una
cortesia.
— Certo, ma a una
condizione. Non sono poi così vecchio. Diamoci del tu e mi sentirò meno in imbarazzo.
— Certo, certo — disse
Marina. Le sue guance si imporporarono.
— Come ti posso aiutare?
Marina si avvicinò al
suo orecchio e Piergiorgio approfittò della vicinanza per assaporare il suo
profumo. Ne fu subito certo: si trattava di Bottega
Veneta. Il suo olfatto non mentiva mai. Poteva riconoscere ogni tipo di
fragranza.
— Puoi procurarmi una
mascherina FFP3?
Piergiorgio si sentì
preso in contropiede. Ipotizzava altro: una cena in un locale romantico (post
isolamento), un viaggio all’Allianz Stadium a vedere la Juventus (post
riapertura campionati), una passeggiata in riva al mare (le spiagge il premier
Conte le aveva chiuse o no?).
— Veramente… non penso
che ne abbiamo… forse una… o due…
Il volto angelico di
Marina si rabbuiò. Un velo di delusione le adombrò lo sguardo.
— Ma non ti preoccupare.
Te ne procurerò una. Per me niente è impossibile.
Il sorriso carico di
fiducia della donna ristabilì il suo equilibrio con l’universo.
— Grazie, Piergiorgio.
Sapevo di poter contare su di te.
Avrebbe voluto baciarla,
ma in tempo di isolamento non era il caso che si lasciasse andare in slanci d’affetto.
Mentre Marina tornava alla sua postazione di lavoro Piergiorgio non poté fare a
meno di radiografare il fondoschiena parlante su cui sperava di far morire, un giorno
non troppo remoto, la sua mano.
La soddisfazione di
averla resa felice per la prima volta durò il tempo delle scale, perché
Gargamella sbraitava al telefono con la farmacista. I DPI sarebbero rimasti un
sogno.
— Caposala, con che cosa
ci proteggeremo dall’infezione? Arriveranno molti casi. Se raggiungiamo solo il
10% dei numeri della Lombardia siamo fottuti, lo sai?
— Ti rispondo in
italiano così mi capisci: con una beata minchia!
— A me serve una FFP3.
— E per fare che?
— Fatti miei.
— Non ce n’è! — Gargamella non
reggeva più lo stress. Ad ogni richiesta scattava come una molla.
— Ma possono lasciarci
morire in questo modo?
— Ti ricordo che durante
la seconda guerra mondiale ci hanno mandato in Russia con le scarpe di cartone.
Ti meravigli se non abbiamo tute in Tyvek e mascherine FFP3?
— A me ne non me frega
niente delle tute, mi serve una mascherina.
— Compratela in
ferramenta!
Forse con Marina non
avrebbe fatto cattiva figura. L’avrebbe conquistata. In tempo di coronavirus una
FFP3 è più accattivante di un mazzo di rose rosse. Si allontanò senza degnare Gargamella di uno sguardo e si fiondò
nella stanza del medico di guardia, lontano da orecchie indiscrete. Da quel
guaio poteva tirarlo fuori solo il suo amico scrittore Edoardo. Compose il
numero. Al terzo squillo rispose.
— Amico mio.
— Stai disturbando la
mia ispirazione… — il tono sprezzante di Edoardo voleva significare solo una
cosa: era in fase creativa.
— Scusa, ma è una cosa
vitale.
— Sto scrivendo una
scena importante del sequel del mio romanzo. Questi cinesi non mi avranno mai!
— Smettila con queste
cazzate delle teorie complottiste. Nessuno vuole bloccare il tuo estro
creativo. A proposito, come hai deciso di intitolare il secondo romanzo della
tua saga?
— L’asiatica sulla
scrivania.
— Originale.
— È un romanzo erotico a
sfondo sociale. Ha alla base la lotta della società contro il vilipendio dei
virus. Ma tu non puoi capire, del resto infili aghi nella schiena della gente e
tubi tra le corde vocali.
— Ho bisogno di un
favore. — Piergiorgio andrò dritto al sodo.
— Sono tuo amico, anche
se mi hai tradito non leggendo il mio romanzo.
— Vai in ferramenta e
compra una FFP3. —
Piergiorgio ignorò l’offesa dell’amico.
— Una mascherina?
— Sì. Ma bada bene che
sia FFP3.
— Ok.
— Fammi sapere se ne trovi.
Vanno a ruba. In ospedale non ne abbiamo e la farmacia non sappiamo se ne
fornisce.
— Consideralo fatto. In
casa ne ho sei confezioni da cento.
— Cosa?
I quattro peli castani
sul cranio di Piergiorgio si drizzarono.
— Con questo romanzo
sfiderò i potenti del mondo e metterò in discussione le loro certezze. Ho
pensato che dovevo proteggermi dai loro attacchi. Dopo il COVID19 ci sarà il
COVID20. Devo essere pronto.
— Hai 600 mascherine a
casa?
Piergiorgio immaginò il
ghigno di soddisfazione dell’amico all’altro capo del telefono.
— Mettimene una da
parte. Non fare lo stronzo.
— Ti aspetto dopo il
lavoro, ma ora fammi lavorare. Ho molto da fare.
Piergiorgio stava per
liberare il carattere calabrese fumantino, ma la chiamata per un cesareo di
urgenza lo riportò al dovere.
Al Sisalvichipuò
Hospital i tagli cesarei erano come le ciliegie: uno tirava l’altro. E per un
anestesista di provincia che si rispetti erano pane quotidiano. Non ebbe il
tempo di riagganciare la chiamata proveniente dal reparto di ostetricia che
sentì urla provenienti dal complesso operatorio.
— Un cesareo. Un
ceareoooooooooo.
Era Aida Sguaitamatti.
— Ma è urgente-urgente?
C’è bradicardia? Sanguina?
— No.
— Ma che urgenza è? —
chiese Piergiorgio.
La voce di gallina di
Aida riempì l’antisala.
— Il cesareo è urgente.
Vedi? Ti ho fatto il foglio — asserì la ginecologa, sbattendo la cartella sulla
scrivania dell’accettazione. — E sul cesareo devi stare zitto. Decido io. Tu lo
sai chi sono io?
— Una gallina che urla! —
rispose Piergiorgio.
— Come ti permetti.
— Senti, io ti ho solo
detto che la situazione non è così urgente da fare sto casino. Siamo in tempo
di coronavirus e la dovreste smettere con le finte urgenze programmate dal
giorno prima!
— La signora è già
pronta, digiuna da ieri sera — affermò Aida Sguaitamatti, trotterellando.
— Ah certo! Hai visto
che mi prendi in giro? È programmata e me la passi d’urgenza!
Piergiorgio girò i
tacchi e si diresse verso l’accettazione. In tutti gli ospedali d’Italia
l’anestesista era considerato lo zerbino. Ma i tempi stavano cambiando. Se si
fosse trovato a decidere chi intubare o no per carenza di posti, avrebbe
preferito la dottoressa Apnea alla Sguaitamatti. E con questo pensiero aveva
esplicitato quanta stima nutriva nella ginecologa.
— Sbrigati! Non perdere
tempo. — Aida continuava a urlare.
— Devo visitarla, far
firmare il consenso. Stai calma e non urlare.
— Tu, dico a te! — La
ginecologa si rivolse all’infermiera. —
Il tavolo è pronto? Hai avvisato il Nido?
Piergiorgio rideva di
sottecchi. La verità era una: Aida Sguaitamatti sarebbe stata una vittima, ma
il coronavirus le sarebbe stato lontano, acida per com’era. A lei ci avrebbe
pensato il ben più temibile cacazzo!
#4 Muta da sub
Piergiorgio odiava
lavorare la domenica, innanzitutto perché gli toccava il turno di dodici ore,
dalle otto alle venti, con annessa reperibilità notturna dalle venti alle otto.
Ma anche perché l’ufficio ticket era chiuso e non avrebbe potuto scambiare due
chiacchiere con Marina, la bionda fausa
sulle cui labbra avrebbe voluto perdere i sensi. Ma una domenica sì e l’altra
pure, vista la carenza cronica di rianimatori, dettata dalle scelte scellerate
della politica, si ritrovava ad abbronzarsi con le scialitiche con chirurghi di
ogni specie alle calcagna. E mentre l’on. Curcuruto di Forza Calabria pranzava
con la famiglia e meditava nuovi metodi per prendere in giro i cittadini e
ficcargliela senza lubrificante nel didietro, i rianimatori, animati dal senso
del dovere e sostenuti da un giuramento, si facevano in quattro per non
abbandonare i pazienti. Piergiorgio si scagliò contro Ippocrate: ma se proprio
voleva giurare, perché non giurava solo lui anziché scassare la minchia a tutti
i medici nei secoli dei secoli?
Ma i cari onorevoli,
provenienti da commissioni, scuole di pensiero e maestri diversi, non avevano
capito (o facevano finta di non capire) che la sanità calabrese era già allo
sbando prima del cornonavirus. Solo che fino al cinque marzo nessuno si era mai
accorto di quanto fossero importanti gli anestesisti-rianimatori: sottopagati,
sfruttati, e con la dignità sotto le scarpe.
Piergiorgio salì le
scale che dall’UTIC lo portavano direttamente in Rianimazione. Aveva una
Marlboro spenta all’angolo della bocca e la testa incassata nel piumino. Era
quasi primavera, ma le temperature si mantenevano fresche persino in Calabria.
Gargamella lo accolse
con la solita risata accogliente e ironica.
— Te la sei portata la
mascherina da casa?
Piergiorgio sfoggiò
trentasei denti perfetti e senza degnarlo di una parola, si fiondò in cucina a
fumare. Sentiva la necessità di nicotina.
— Per la modica cifra di
ottantacinque euro ho comprato una bella mascherina FFP3 — disse.
Gargamella si passò la
mano sulla pelata e si trattenne dal commentare.
— Inutile che stai
zitto, lo so che pensi che con ottantacinque euro ti facevi una bella mangiata
di pesce. Ma ieri sera sono andato in farmacia e mi sono accaparrato l’ultima
all’asta. Sai com’è? Per la salute…
— Noto che il periodo ha
provocato una piccola maggiorazione sui costi — ironizzò Gargamella.
Finita la prima,
Piergiorgio accese la seconda Marlboro. Nello stesso tempo di avvicinò alla
moka e iniziò a prepararla.
— Te le sei lavate le
mani? — chiese Gargamella.
Piergiorgio disse: — Il
caffè è bollito, il virus muore.
— Perché non hai la
mascherina chirurgica? — lo incalzò il caposala.
— Perché stamattina ho
lavato i denti col Betadine e poi perché il fumo uccide il virus.
— Fossero tutti
parsimoniosi come te, avremmo mascherine chirurgiche in abbondanza.
— Finalmente è arrivata
la fornitura — disse compiaciuto Piergiorgio dopo aver acceso il fornello a
induzione.
Gargamella rise di
gusto. — Se si può chiamare fornitura… un pacco di mascherine chirurgiche.
— E dopo le scarpe di
cartone, ci danno le fionde… — Piergiorgio avrebbe preso per il collo l’on.
Curcuruto e gli avrebbe fatto rimangiare tutte le bugie che raccontava agli
elettori.
— Il tuo amico… sì… il
politico della tua città. Come si chiama?
— Curcuruto. — Esatto.
Proprio lui. L’uomo copertina.
— Ha dichiarato che la
Calabria è pronta, che la nostra rianimazione passerà da quattro a otto posti e
che il conoronavirus non ci spaventa, che si è interessato personalmente con
l’assessore regionale alla sanità per ottenere i DPI.
— Hai visto? Siamo a
posto. — Piergiorgio tolse la moka dalla caffettiera e si versò una dose
generosa di caffè.
— Ne vuoi? — chiese,
rivolto a Gargamella.
Il caposala lo guardò
torvo. — Leva le mani. Ognuno si versa il suo!
Il cacazzo da coronavirus ormai dilagava.
Piergiorgio non ebbe il
tempo di terminare la sigaretta. La sirena del 118 risvegliò il pronto
soccorso, che sonnecchiava senza troppo da fare. Il suo sesto senso che si
stesse per scontrare con una supercazzola
gli provocò una scarica di adrenalina. Inconsciamente si drizzò sulla sedia.
Non passò nemmeno un minuto che il telefono della rianimazione squillò. Si
trattava di un’anziana, sospetto COVID19. Il coronavirus era arrivato anche al
Sisalvichipuò Hospital. Anche se quell’ospedale di provincia non era stato
individuato come COVID, era naturale che i pazienti infetti sarebbero arrivati
anche lì, peccato però che i DPI languivano.
Gargamella tirò fuori
una tuta in TNT.
— Ma non doveva essere
in Tyvek?
— O questa, o niente.
Piergiorgio si vestì e
imbracò di tutto punto. Scafandrato, sembrava un astronauta pronto ad andare
sulla luna. Aveva percorso solo pochi gradini, ma già era un bagno di sudore.
Il facciale filtrante (che aveva comprato in farmacia) gli impediva di respirare
bene, la tuta lo impacciava nei movimenti, la visiera protettiva gli riduceva
la vista.
Ma a Piergiorgio non
importava. Era nato per essere un rianimatore. Era il suo compito ed era
pronto.
La vecchietta era con
altissima probabilità un COVID. Il tampone era partito appena la paziente aveva
messo piede in ospedale. Piergiorgio aveva capito a occhio che la situazione era torbida. Aveva fatto ciò che era
giusto: intubazione oro-tracheale e ventilazione meccanica, in attesa degli
esami strumentali e dell’esito del tampone, che sarebbe stato dirimente per
indirizzarla verso il policlinico di Catanzaro, dichiarato dalla regione centro
COVID di riferimento. Ma senza l’esito del tampone sarebbe rimasto in pronto
soccorso nella stanza dedicata e isolata.
Erano le ventuno quando
Piergiorgio alzò lo sguardo verso l’orologio della sala rossa. Si appoggiò su
una sedia. La vescica pulsava sul basso ventre, assomigliava ormai alla testa
glabra di Gargamella. Sorrise sotto la FFP3 per la battuta che gli era venuta
in mente nonostante lo sconforto che lo assaliva. Era rinchiuso nello scafandro
da dodici ore e una sacrosanta pisciata se la sarebbe fatta, ma visto che la
tuta era l’unica disponibile, come avrebbe potuto indossarla di nuovo? La mascherina
era diventata un tutt’uno con la sua faccia. La barba prudeva. Gocce di sudore scivolavano
dalla fronte e sugli occhi, rendendo difficile vedere.
Buio. Pensava al domani
e vedeva solo una coltre fuligginosa. Quando sarebbe arrivata la primavera per
allontanare la bruma del mattino? Un solo pensiero lo tirò su di morale: i
cannelloni di nonna Veronica. Ne avrebbe fatto una scorpacciata appena arrivato
a casa. Sempre se avesse avuto l’opportunità di togliere quella maledetta tuta.
In quell’istate aveva capito perché in ospedale i DPI scarseggiavano. Era tutto
a beneficio degli operatori sanitari: non avrebbero sofferto per ore e ore
rinchiusi in quella sauna. Ogni istante sembrava non trascorrere. L’orologio
alla parete sembrava fermo sempre alle ventuno.
Alle sei e dodici minuti
del mattino (venti ore dopo l’esecuzione del tampone) sbucò dal corridoio la
testa di Ciccino Sampei, l’infermiere del Pronto soccorso che era rimasto a
dargli una mano (a distanza).
— Positivo, dottore! —
disse, con addosso l’apprensione di una famiglia a casa da cui tornare. Il
volto sorridente dell’infermiere era un marchio di fabbrica, ma la pandemia
aveva spento ogni voglia di ironia, nutrendo la paura negli angoli nascosti
dell’animo umano.
— E ora che si fa? —
chiese Piergiorgio, stremato.
— Mi metto la divista e
arrivo. Il posto è al policlinico di Catanzaro.
— Ma non lo trasferisce
il 118? — urlò Piergiorgio da sotto la tutta. La sua voce rimbombava.
— No, dicono che loro
non si muovono. Sono tutti impegnati.
Piergiorgio imprecò
contro la costellazione di Orione, l’Orsa Maggione e anche la Stella Polare.
— Ma i protocolli? Le procedure?
Gli accordi? Le riunioni?
— Tempo perso, duttureddu! Siamo in guerra. E n’amu arranciari!
Ciccino aveva ovviato alla
carenza di DPI: si era portato da casa la sua muta da pesca.
Piergiorgio rise a
crepapelle, tanto da farsela sotto (e non era una battuta).
— Imbracato così anche
il coronavirus si spaventa!
— Dottore, solo questa
ho. E non mi lascia scoperto in nessuna parte del corpo. Guardi. — Ciccino si
esibì in una piroetta.
— Ti mancano le pinne! —
Piergiorgio non ce la faceva a stare serio. Sarebbe morto il giorno esatto in
cui avesse smesso di ridere. Un altro schizzo di pipì alleggerì il suo ventre
dolente.
Pronti, partenza e via.
Arrivarono a Catanzaro,
dove pareva che le cose funzionassero meglio del Sisalvichipuò Hospital.
Era mezzanotte quando
finalmente Piergiorgio svuotò la vescica. Era in un bagno di sudore quando uscì
dalla toilette del policlinico. Adocchiò un distributore automatico, avrebbe
avuto bisogno di due litri di acqua, ma non ebbe il tempo di fare due passi. Tutto
divenne bianco.
La vita gli passò davanti
insieme alle tempeste che lo avevano sbattuto come un relitto sugli scogli. Se
ripensava a quello che aveva visto e vissuto, il domani non poteva che
riservargli solo bellezza. Ma proprio quando la primavera sembrava essere
arrivata prepotente nel suo animo, era sopraggiunto lui: il virus made in
china.
— Duttureddu, duttureddu… — Ciccino lo schiaffeggiava con violenza.
Piergiorgio aprì gli
occhi. Alla vista dell’infermiere, li richiuse.
— Sono vivo, ma ti giuro
che se me ne dai un’altra mi alzo e ti prendo a calci in culo fino a casa.
Avrebbe preferito le
labbra rosso fuoco di Marina e i suoi occhioni ambrati, ai riccioli sporchi e
sudati di Ciccino.
— Torniamo a casa —
disse Piergiorgio.
Il Salvichipuò Hospital
di lunedì mattina profumava di casa. Evitò di passare davanti allo sportello
dell’ufficio ticket, non voleva che Marina lo vedesse in quello stato pietoso. Ma
non si può sfuggire al destino e quando varcò la soglia della porta scorrevole
d’ingresso lei era lì, al bar. Accanto a lei c’era Umberto Desiderio, famoso
per i suoi corteggiamenti senza freni. Il volto già stanco di Piergiorgio si
increspò ancora di più, amplificando il solco sulla fronte.
Umberto, vestito di
tutto punto con una camicia griffata e il camice bianco lindo e profumato, si
atteggiava con la splendida Marina, che quel giorno sembrava più bella del
solito.
Piergiorgio non riuscì a
trattenere l’indole sanguigna e l’embolo partì senza possibilità di bloccarlo.
Si avvicinò ai due. Sembrava Mohamed Alì.
— Scusate se interrompo
la vostra colazione, ma non siete a un metro di distanza.
Umberto si voltò senza
parlare, contrariato. Di certo Marina doveva essere difficile da conquistare:
era la strafiga del Sisalvichipuò e le sbavavano dietro fior di uomini pronti a
lasciare le famiglie per un posto nel suo cuore.
— Scusa?
— Hai capito bene. Allontanati!
Il tono di Piergiorgio
non ammetteva repliche.
Marina restò in silenzio
ad osservare la scena, mentre i due uomini lanciavano saette dagli occhi. Poi intervenne:
— Ha ragione Piergiorgio. Torno a lavoro. — Indossò la mascherina e si diresse
all’ufficio ticket. Il fondoschiena della donna, fasciato in un vestitino blu
aderente, iniziò a cantare la nona di Beethoven e la giornata di Piergiorgio
iniziò a illuminarsi.
Nello stesso istante l’on.
Curcuruto se ne stava sbracato nella sua piscina privata coperta con un Moscow
Mule in mano e l’i-phone nell’altra. Controllava i commenti dell’ultimo post su
Facebook. La sua foto mentre arringava al palazzo della regione faceva
veramente effetto. E sotto il messaggio criptico: Sto lavorando per voi. Fatti, non pugnette! c’eranoduemilatrecento “mi piace” e commenti
da tifo da stadio. Li aveva conquistati tutti con quattro puttanate. Anzi no…
li aveva presi per il culo!
http://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpg00adminhttp://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpgadmin2020-03-30 16:38:142020-03-30 16:57:38#4 Muta da sub
Il conoravirus avrebbe
causato molte vittime, di questo ormai Piergiorgio ne era certo. Ma al di là
degli infetti e delle polmoniti intrattabili, molti sarebbero finiti sotto le
grinfie dei becchini per una patologia tanto diffusa quanto misconosciuta: il cacazzo.
Anche Piergiorgio se la
faceva sotto dalla paura. Non solo per quella di infettarsi e di finire con un
tubo in gola a causa delle venti (dichiarate) sigarette al giorno, ma soprattutto
lo inquietava il terrore di non potersi recare da Nonna Veronica, che lo
riempiva di prelibatezze. Il freezer già iniziava a svuotarsi e, se l’isolamento
continuava, sarebbe finita a mozzarella e scatolette. Altro che parmigiana di
melenzane. I suoi addominali erano in pericolo. Ma meditava un piano b: nonna
Veronica poteva tranquillamente lasciare i manicaretti da congelare
nell’ascensore, evitando di correre il rischio di infettarsi. Senza la sua
pancia da rianimatore non si sentiva se stesso. Avrebbe fatto questo sacrificio
per tutelare l’immagine di tutta la categoria. Si ripromise di chiamarla nel
momento in cui i viveri fossero davvero ridotti all’osso. Meglio non rischiare
la salute della nonna. Si sarebbe rimesso in carreggiata una volta fronteggiata
la pandemia.
Piergiorgio, come ogni
sacrosanto giorno, varcò la soglia del Sisalvichipuò Hospital, ma quella
mattina trovò una bella novità: nella stanzetta del timbro si entrava uno alla
volta e bisognava mantenere un metro di distanza gli uni con gli altri. Dopo dieci
minuti di attesa sfoderò il cartellino e iniziò ufficialmente il turno sotto
gli occhi della dottoressa Gianna Apnea, il direttore sanitario di presidio
fresca di nomina, premiata per le sue grandi qualità… sotto la scrivania
dell’On. Curcuruto prima e dell’assessore regionale alla sanità dopo. Senza
considerare le male lingue che urlavano a gran voce un suo passaggio sotto lo scrittoio
(piccolo, ma comodo) del direttore generale. La dottoressa Apnea, mascherina
sotto il naso, occhialino da professoressa e capello fresco di piega (con le parrucchiere
chiuse Piergiorgio non si capacitava di cotanta ostentata perfezione) vigilava
sul rispetto della distanza di sicurezza con un bastone lungo un metro.
— Dottore Morfina, dov’è
la sua mascherina? Perché ne è sprovvisto?
La voce sgradevole lo
riportò alla realtà, trascinandolo via dal sogno che stava facendo: la tavola cunzata a casa di Nonna Veronica.
— Direttore, buongiorno.
Non credo che il mio reparto sia fornito di mascherine in abbondanza. Se ne
troverò una, la indosserò.
— Oggi sono arrivate ben
cinquanta mascherine. Non si lamenti
e rispetti le regole.
Piergiorgio annuì. Non
aveva voglia di iniziare il turno polemizzando.
Si voltò e squadrò la
dottoressa Apnea: non si sarebbe fatto sfiorare nemmeno con un dito, né sotto,
ma tantomeno sopra la scrivania.
Arrivato alla fine del
corridoio, anziché continuare dritto verso la scala che lo avrebbe condotto in
Rianimazione, svoltò a destra per passare dinanzi all’ufficio ticket. Marina
era lì, seduta alla sua postazione. La osservava. Era bella. Una bionda (fausa) con occhi da cerbiatta. Non
riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. La donna era impegnata a discutere
con una paziente gravida che doveva fare una visita in intramoenia con la sua
collega ginecologa Aida Sguaitamatti, ricercatissima dalle pazienti, ma da
evitare come la peste per il suo scarso appeal con i libri universitari: non li
aveva mai aperti.
Quando Marina alzò gli
occhi dalle scartoffie i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri.
Piergiorgio sentì che le gambe gli stavano crollando. Quando lei gli regalò un
sorriso, lui alzò la mano destra e la salutò. Stava per tornare indietro e
imboccare il corridoio per raggiungere il suo reparto, ma si sentì chiamare. —
Dottore, dottore.
Piergiorgio si voltò.
Era lei. Ebbe il dubbio che si stesse riferendo proprio a lui. Un anestesista
che veniva chiamato “dottore” era cosa insolita. Ma i tempi stavano cambiando.
— Sì… sì… sono io.
Piergiorgio, cazzuto,
cinico e stronzo rianimatore, iniziò a tentennare e si meravigliò di se stesso:
non era da lui.
— Dottore Morfina, lei è
un anestesista?
— Sono rianimatore, sì.
Piergiorgio non
apprezzava essere etichettato come quello che addormentava e svegliava i
pazienti. Il suo lavoro era ben altro. Definirsi rianimatore lo faceva sentire
più figo, specie in tempo di coronavirus.
— Volevo chiederle una
cortesia.
— Certo, ma a una
condizione. Non sono poi così vecchio. Diamoci del tu e mi sentirò meno in
imbarazzo.
— Certo, certo — disse
Marina. Le sue guance si imporporarono.
— Come ti posso aiutare?
Marina si avvicinò al
suo orecchio e Piergiorgio approfittò della vicinanza per assaporare il suo
profumo. Ne fu subito certo: si trattava di Bottega
Veneta. Il suo olfatto non mentiva mai. Poteva riconoscere ogni tipo di
fragranza.
— Puoi procurarmi una
mascherina FFP3?
Piergiorgio si sentì
preso in contropiede. Ipotizzava altro: una cena in un locale romantico (post
isolamento), un viaggio all’Allianz Stadium a vedere la Juventus (post
riapertura campionati), una passeggiata in riva al mare (le spiagge il premier
Conte le aveva chiuse o no?).
— Veramente… non penso
che ne abbiamo… forse una… o due…
Il volto angelico di
Marina si rabbuiò. Un velo di delusione le adombrò lo sguardo.
— Ma non ti preoccupare.
Te ne procurerò una. Per me niente è impossibile.
Il sorriso carico di
fiducia della donna ristabilì il suo equilibrio con l’universo.
— Grazie, Piergiorgio.
Sapevo di poter contare su di te.
Avrebbe voluto baciarla,
ma in tempo di isolamento non era il caso che si lasciasse andare in slanci d’affetto.
Mentre Marina tornava alla sua postazione di lavoro Piergiorgio non poté fare a
meno di radiografare il fondoschiena parlante su cui sperava di far morire, un
giorno non troppo remoto, la sua mano.
La soddisfazione di
averla resa felice per la prima volta durò il tempo delle scale, perché
Gargamella sbraitava al telefono con la farmacista. I DPI sarebbero rimasti un
sogno.
— Caposala, con che cosa
ci proteggeremo dall’infezione? Arriveranno molti casi. Se raggiungiamo solo il
10% dei numeri della Lombardia siamo fottuti, lo sai?
— Ti rispondo in
italiano così mi capisci: con una beata minchia!
— A me serve una FFP3.
— E per fare che?
— Fatti miei.
— Non ce n’è! — Gargamella non
reggeva più lo stress. Ad ogni richiesta scattava come una molla.
— Ma possono lasciarci
morire in questo modo?
— Ti ricordo che durante
la seconda guerra mondiale ci hanno mandato in Russia con le scarpe di cartone.
Ti meravigli se non abbiamo tute in Tyvek e mascherine FFP3?
— A me ne non me frega
niente delle tute, mi serve una mascherina.
— Compratela in
ferramenta!
Forse con Marina non
avrebbe fatto cattiva figura. L’avrebbe conquistata. In tempo di coronavirus una
FFP3 è più accattivante di un mazzo di rose rosse. Si allontanò senza degnare Gargamella di uno sguardo e si fiondò
nella stanza del medico di guardia, lontano da orecchie indiscrete. Da quel
guaio poteva tirarlo fuori solo il suo amico scrittore Edoardo. Compose il
numero. Al terzo squillo rispose.
— Amico mio.
— Stai disturbando la
mia ispirazione… — il tono sprezzante di Edoardo voleva significare solo una
cosa: era in fase creativa.
— Scusa, ma è una cosa
vitale.
— Sto scrivendo una
scena importante del sequel del mio romanzo. Questi cinesi non mi avranno mai!
— Smettila con queste
cazzate delle teorie complottiste. Nessuno vuole bloccare il tuo estro
creativo. A proposito, come hai deciso di intitolare il secondo romanzo della
tua saga?
— L’asiatica sulla
scrivania.
— Originale.
— È un romanzo erotico a
sfondo sociale. Ha alla base la lotta della società contro il vilipendio dei
virus. Ma tu non puoi capire, del resto infili aghi nella schiena della gente e
tubi tra le corde vocali.
— Ho bisogno di un
favore. — Piergiorgio andrò dritto al sodo.
— Sono tuo amico, anche
se mi hai tradito non leggendo il mio romanzo.
— Vai in ferramenta e
compra una FFP3. —
Piergiorgio ignorò l’offesa dell’amico.
— Una mascherina?
— Sì. Ma bada bene che
sia FFP3.
— Ok.
— Fammi sapere se ne
trovi. Vanno a ruba. In ospedale non ne abbiamo e la farmacia non sappiamo se
ne fornisce.
— Consideralo fatto. In
casa ne ho sei confezioni da cento.
— Cosa?
I quattro peli castani
sul cranio di Piergiorgio si drizzarono.
— Con questo romanzo
sfiderò i potenti del mondo e metterò in discussione le loro certezze. Ho
pensato che dovevo proteggermi dai loro attacchi. Dopo il COVID19 ci sarà il
COVID20. Devo essere pronto.
— Hai 600 mascherine a
casa?
Piergiorgio immaginò il
ghigno di soddisfazione dell’amico all’altro capo del telefono.
— Mettimene una da
parte. Non fare lo stronzo.
— Ti aspetto dopo il
lavoro, ma ora fammi lavorare. Ho molto da fare.
Piergiorgio stava per
liberare il carattere calabrese fumantino, ma la chiamata per un cesareo di
urgenza lo riportò al dovere.
Al Sisalvichipuò
Hospital i tagli cesarei erano come le ciliegie: uno tirava l’altro. E per un
anestesista di provincia che si rispetti erano pane quotidiano. Non ebbe il
tempo di riagganciare la chiamata proveniente dal reparto di ostetricia che
sentì urla provenienti dal complesso operatorio.
— Un cesareo. Un
ceareoooooooooo.
Era Aida Sguaitamatti.
— Ma è urgente-urgente?
C’è bradicardia? Sanguina?
— No.
— Ma che urgenza è? —
chiese Piergiorgio.
La voce di gallina di
Aida riempì l’antisala.
— Il cesareo è urgente.
Vedi? Ti ho fatto il foglio — asserì la ginecologa, sbattendo la cartella sulla
scrivania dell’accettazione. — E sul cesareo devi stare zitto. Decido io. Tu lo
sai chi sono io?
— Una gallina che urla! —
rispose Piergiorgio.
— Come ti permetti.
— Senti, io ti ho solo
detto che la situazione non è così urgente da fare sto casino. Siamo in tempo
di coronavirus e la dovreste smettere con le finte urgenze programmate dal
giorno prima!
— La signora è già
pronta, digiuna da ieri sera — affermò Aida Sguaitamatti, trotterellando.
— Ah certo! Hai visto
che mi prendi in giro? È programmata e me la passi d’urgenza!
Piergiorgio girò i
tacchi e si diresse verso l’accettazione. In tutti gli ospedali d’Italia
l’anestesista era considerato lo zerbino. Ma i tempi stavano cambiando. Se si
fosse trovato a decidere chi intubare o no per carenza di posti, avrebbe
preferito la dottoressa Apnea alla Sguaitamatti. E con questo pensiero aveva
esplicitato quanta stima nutriva nella ginecologa.
— Sbrigati! Non perdere
tempo. — Aida continuava a urlare.
— Devo visitarla, far
firmare il consenso. Stai calma e non urlare.
— Tu, dico a te! — La
ginecologa si rivolse all’infermiera. —
Il tavolo è pronto? Hai avvisato il Nido?
Piergiorgio rideva di sottecchi. La verità era una: Aida Sguaitamatti sarebbe stata una vittima, ma il coronavirus le sarebbe stato lontano, acida per com’era. A lei ci avrebbe pensato il ben più temibile cacazzo!
http://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpg00adminhttp://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpgadmin2020-03-29 16:08:082020-03-29 16:08:11#3 Aida Sguaitamatti e l’urgenza programmata in tempo di coronavirus
La sensazione che
provava ogni volta che si trovava al Sisalvichipuò Hospital era la stessa dal
2014, quando per la prima volta aveva varcato la soglia del piccolo ospedale di
provincia di cui si era innamorato: era a casa.
Piergiorgio non amava i grandi numeri degli ospedali di città. Le
gerarchie dei Policlinici non facevano per lui che era sempre stato d’indole
libera e poco incline alle regole. Ma da quando era scoppiata la pandemia e la
gente moriva, non si sentiva al sicuro. Il premier aveva parlato alla nazione,
emanando un DCPM restrittivo che aveva messo le ganasce persino al suo amico
scrittore-mantenuto Edoardo, il quale era stato costretto ad annullare il mega
evento letterario per la presentazione del suo libro porno-erotico “La
dottoressa se la fa in ambulatorio”, che il regista Rocco Siffredi aveva già opzionato
per un film che sarebbe stato girato entro la primavera del 2021.
Non riusciva a
rinunciare alle vecchie abitudini, non tanto perché non riusciva a privarsi di
ciò che faceva da anni, ma per la sua indole scaramantica. Alla colazione al
“Bar Mario” con Edoardo non avrebbe rinunciato. Ne valeva della buona sorte del
turno.
Caffè ristretto
amaro come il veleno, mezza ciambella fritta senza zucchero e sigaretta.
— Sono le sette e mezza.
A che ora monti? — chiese Edoardo, alto e dinoccolato. Con l’indice riposizionò
gli occhiali da sole alla radice del naso a patata. Proprio non ne volevano
sapere di stare al proprio posto.
— Alle otto. Mi fai la stessa domanda da cinque anni.
— Sì, ma porta bene. O
no?
Piergiorgio si toccò in
mezzo alle gambe. Il gesto non passò inosservato ai pochi avventori, che lo
guardarono schifati. Era poco galante, ma un turno in pace era molto meglio
delle occhiate malevole della gente.
— Speriamo.
— Posso farti una
domanda personale? — chiese Edoardo, dopo aver ingurgitato il caffè in un unico
sorso.
Piergiorno annuì
— Ma perché continuiamo a fare colazione in questo bar schifoso?
— Perché porta bene.
— Ah sì, allura paga
tu, e prepara un posto in rianimazione che mi hanno avvelenato!
Piergiorno accese la
Marlboro. E siamo alla terza, pensò. Di questo passo il pacchetto non sarebbe
arrivato a sera.
I pochi coraggiosi che
prendevano ancora il caffè al bar si scansavano gli uni dagli altri,
respiravano poco e parlavano ancora meno. Piergiorgio si diresse a rapide
falcate verso l’ospedale. Erano le otto meno dieci e non era sua abitudine dare
il cambio in ritardo.
— Secondo me questo è un
virus creato in laboratorio per distruggere l’occidente — disse Edoardo.
— Sì, come no…
— Te lo dico io! Questi cinesi
vogliono affossarci.
— Secondo te siamo una
potenza economica che fa paura? Ma dai… ti facevo più intelligente.
Edoardo afferrò il gomito di Piergiorgio, che sobbalzò. Da giorni ormai i contatti umani e le manifestazioni d’affetto erano bandite.
— Ci sono! Il mio
best-seller.
Piergiorgio si staccò dalla presa e riprese a camminare verso l’ospedale senza dargli conto.
— La scena con l’asiatica!
— Non ti seguo.
— Hai letto o no il mio libro? — Edoardo si piazzò dinanzi all’amico, impedendogli di proseguire
— Non tutto… sai…
insomma…
Edoardo si accigliò.
— Non ti offendere. È un
porno! E anche poco originale.
— Poco originale! Tu non capisci niente di libri!
— Sì, ma… insomma… non
so che c’entra l’asiatica.
— Stanno boicottando il lancio del mio libro. Io sarei diventato famoso… capisci? La pandemia è un pretesto per tarparmi le ali da scrittore. Persino Rocco si è interessato al testo, sta già scrivendo la sceneggiatura.
— Sono certo che era
interessato ai dialoghi! — ironizzò Piergiorgio, poi riprese a camminare.
— Tu puoi non credermi,
ma si tratta di un complotto internazionale.
— Sì, ma stai a casa.
Non uscire e non fare stupidaggini. Se il coronavirus dilaga, siamo persi.
— Vedrai che è solo un’influenza.
Una bolla di sapone… — Edoardo minimizzò, come era suo solito fare.
— Spero che sia come
dici tu. Mentre tu studi bene la scena con l’asiatica, io vado a lavorare. Il
Sisalvichipuò ha bisogno di me.
— Sei fissato con questo
ospedale. In fondo sono quattro mura, un tetto, siringhe, sale operatorie…
— Forse per te, per me è…
casa.
Edoardo non sapeva che
lì dentro, presente tutti i giorni dietro il vetro dell’ufficio ticket, c’era
Marina, la donna che con i suoi capelli biondi, il suo sorriso smagliante e,
soprattutto, un fondoschiena parlante, lo aveva stregato fin dalla prima volta
che ci era andato a sbattere contro.
Le cose non erano andate come sperava e quella mattina Marina era nascosta in qualche sgabuzzino recondito a sbrogliare scartoffie. Il sole che brillava dentro il Sisalvichipuò era offuscato. Aveva l’impressione che la primavera fosse rimasta fuori ad aspettare un invito, come un ragazzo di troppo quando si fanno le squadre al campo dell’oratorio. Per un attimo tornò adolescente, mentre calcava i campi di calcio sterrati e il sogno di diventare il nuovo Roberto Baggio, solo che a stroncare tutto era stata una torsione di troppo del ginocchio e i legamenti saltati per aria. Anche se di Baggio aveva avuto solo il codino, perché i piedi erano storti come una quercia piegata al vento, inutile negare l’evidenza. Al destino non si scappa e così a vent’anni aveva capito che doveva rimettersi a studiare. Aveva conosciuto il suo maestro in un maggio assolato, mentre fuori i suoi coetanei correvano dietro sogni irrealizzabili, lui si era innamorato di un laringoscopio e un tubo da mettere in mezzo alle corde vocali. Ed era stato amore. Piergiorgio sentiva di essere nato per quello: l’umo per gli altri.
Salì i gradini con mille pensieri e una Marlboro spenta all’angolo della bocca. Aprì la porta del reparto. Un lungo corridoio collegava il complesso operatorio alla Rianimazione. Lo accolse il caposala Gargamella. Occhi spiritati dentro un cranio calvo. Le occhiaie di chi non dorme da molti giorni. Una sigaretta appena rollata. Due orecchie a parabola piegate sotto il peso di un paio di occhiali del dopoguerra. Sembrava un gatto pronto a scattare: pelo arricciato e artigli allerta.
— Mettiti la mascherina.
— Lo rimproverò.
— Ma sei impazzito?
Piergiorgio non lo
riconosceva più. Il Coronavirus aveva trasformato lo scanzonato Gargamella.
— Fuori c’è la morte. Lo
capisci? La morte. E noi non abbiamo percorsi. Non abbiamo DPI. Ho tirato fuori
tutto quello che era utile in farmacia e sai che ho trovato?
Piergiorgio fece segno
di no con la testa.
— Una beata minchia!
Gargamella si allontanò e dopo pochi passi si esibì in un saltello nervoso.
— Anziché scassarmi la
minchia come fai da sei anni a questa parte… il primario dov’è?
Piergiorgio non ottenne
risposta, ma le discussioni in cucina lo informarono con abbondanza di dettagli
(al settanta percento inventati) degli ultimi eventi di reparto cui lui non era
a conoscenza.
Il dottor Muccalapuni soffriva di ipertrofia prostatica cronica. Andava a pisciare ogni venticinque minuti, cascasse il mondo. E tramite l’onorevole Curcuruto aveva ottenuto un appuntamento dal dott. De Tubis, luminare del settore prostatico. In pratica nel mondo potevano solo… inchinarsi a lui. Ma le liste d’attesa si allungavano, specie per chi, come Orazio Muccalapuni, aveva il braccino corto e preferiva una scorciatoia politica a sborsare le duecentocinquanta euro più iva di visita intramoenia. Così l’esponente di spicco di Forza Calabria, nonché sponsor politico della sua nomina a primario, era riuscito ad ottenere un appuntamento a ufo per il 24 febbraio 2020. Ma De Tubis non sembrava tipo da sottomettersi a un politico, specie se della Terronia, così per un capriccio aveva rinviato il consulto per il 27 febbraio, in piena emergenza corunavirus. Muccalapuni al rientro dalla zona rossa della Lombardia si era rinchiuso in quarantena a casa con la sua giovane e generosa terza moglie, lasciando allo sbando più totale i rianimatori del Sisalvichipuò.
— Quindi se mi arriva un
COVID che faccio? — chiese Piergiorgio.
— Prega — rispose
Gargamella, sghignazzando.
Sistemeranno tutto. Non
ci lasceranno in balia della tempesta, pensò Piergiorgio. Ma più che una
certezza era una recondita speranza in fondo al suo animo.
— Compà. — Entrò in
cucina, mantenendo la distanza di sicurezza, l’altro maschio del reparto: Pippo
Buddacio.
— Ehi. — Piergiorgio non
aveva voglia di sfoderare la sua ironia. Tra la sottile cefalea, residuo della
bevuta della sera prima, e la paura che iniziava a montare per una pandemia che
bussava alle porte del suo ospedale, la voglia di scherzare l’aveva lasciata
fuori dalla porta della Rianimazione.
— Amico mio, quante
ferie residue hai? — sussurrò, dopo averlo fatto uscire dalla stanza in cui gli
altri colleghi ironizzavano sulle prestazioni sessuali di Muccalapuni.
— Dovrei controllare il
cartellino… saranno novanta giorni.
— Ho trovato il modo per
levarci da questo posto per quattordici giorni. — Gli occhi azzurri di Pippo
saettavano, febbrili. I riccioli brizzolati crescevano incolti e bizzarri, così
come la barba, lasciata allo stato brado.
— Il direttore sanitario
ha revocato le ferie — disse Piergiorgio, ripetendolo a se stesso per
interiorizzare il concetto.
— Ho un piano.
Piergiorgio avvicinò l’orecchio
destro alla mascherina di Pippo.
— Ci serve un bambino positivo. I bambini sono vettori, ma sono asintomatici. Ne individuiamo uno di una casa di pazienti infetti. Lo blocchiamo, facciamo due tamponi e li mandiamo a nome nostro. Risulteremo positivi e ci mollano a casa quattordici giorni. Che ne dici?
— Pippo, ascolta, quant’è che non scopi?
— Come? Scopare? Che
vuoi dire?
— Hai capito, quant’è che non stai con una donna?
Un tic nervoso si slatentizzò sull’occhio destro di Pippo.
— Fatti una scopata e
levati dalla testa queste follie.
Pippo si sfregò le mani,
poi si allontanò da Piergiorgio. La testa si muoveva sincrona con i passi, compiendo
piccoli scatti ritmici sulla destra.
— Scopare, scopare —
mormorava Pippo.
Già. E io quant’è che non sento l’odore di una donna? Pensò Piergiorgio.
Il pensiero tornò a Marina. Una giornata senza vederla era priva di significato. Anche un cinico, freddo e stronzo rianimatore come lui era stato colpito dalla freccia di cupido?
http://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpg00adminhttp://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpgadmin2020-03-28 17:00:012020-03-29 05:46:17#2 Teorie complottiste
Lamelle di luce fastidiose iniziavano a scassargli la minchia, ma la sveglia non suonava. L’i-phone stazionava silenzioso e immobile sul comodino, come un alunno che conosce bene l’ira dell’insegnante per un movimento sbagliato durante la lezione. Si illuminava per i continui sms, notifiche e mail. Ma muto era e muto restava. Sapeva già che rischiava l’exitus. Era già traballante con uno schermo spaccato a metà. Se avesse suonato un minuto prima del previsto il suo destino era segnato.
O
era arrivata la primavera in anticipo, o qualcuno dall’alto (e non
era la ninfomane del piano di sopra) aveva deciso di farlo alzare con
la luna storta, oppure le stagioni si erano sovvertite. Ultima teoria
era la forza gravitazionale. Si era spostato durante il sonno dalla
sua classica posizione a faccia in giù quel tanto che bastava
affinché la luce stuzzicasse le sue palpebre.
Fatto
sta che la lamella di luce lo aveva colpito esattamente nel suo punto
debole e aveva preso a spallate Morfeo, che ancora lo cullava.
Guardò
il cellulare con un occhio ancora impastato dal sonno e l’altro
invece sveglio e pimpante. Il gruppo degli anestesisti-rianimatori
“Al peggio non c’è mai fine” del Sisalvichipuò Hospital
segnava settantadue sms.
— Minchia
—
disse. Stropicciò l’occhio ancora chiuso, poi cercò il pacchetto
di Marlboro e ne accese una, seduto in mezzo al letto.
Iniziò
a spulciare gli sms.
—Minchia!
—
ripeté, allungando la “a” finale.
Il
premier Conte si era svegliato. Era il 5 marzo e il virus cinese che
impestava il nord era davvero pericoloso e il consiglio dei ministri
aveva deciso di mettere in stand-by l’Italia.
— Ve
ne siete accorti solo ora, eh?
Si
alzò, dopo aver scacciato le coperte. Mise i piedi a terra e non
trovò le pantofole. La bocca era impastata per la bevuta colossale
della sera prima. Con il suo amico Edoardo, scrittore e mantenuto, si
erano scolati l’intero DOP. Un vuoto di memoria non gli consentì
di collegare l’ultimo sorso di Vodka con il suo ingresso a casa. La
testa sfrigolava come una vecchia locomotiva. Passò in cucina e
ingollò un antiinfiamamtorio. La doccia era l’unico rimedio per
darsi una svegliata prima del turno di lavoro. Appena il getto
dell’acqua calda lo investì la sveglia iniziò a squillare.
— Coronavirus
del cazzo, mi revocheranno le ferie!
Già,
le ferie. Le aspettava dall’estate, quando era stato obbligato a
consumare i giorni di allontanamento anestesiologico. Trattava da
mesi con il suo primario per avere sette giorni di riposo e,
nonostante il suo cartellino segnasse centoventidue giorni arretrati,
sembrava quasi che gli facesse una cortesia.
— C’è
carenza, dobbiamo garantire i LEA, ne vale della salute dei cittadini
—
gli
ripeteva il suo primario, il dott. Muccalapuni, basso, tracagnotto e
malato cronico di ipertrofia prostatica, culo e camicia col direttore
sanitario aziendale e grande leccaculo dell’On Tony Curcuruto,
esponente di spicco di Forza Calabria.
L’acqua
lo riportò alla realtà e alla pandemia che presto avrebbe colpito
anche il suo piccolo ospedale in provincia di Vibo Valentia, il
Sisalvichipuò Hospital, incastonato tra Serra San Bruno e le spiagge
di Pizzo.
— I
LEA… la salute… la MINCHIA! Alla prima virgola fuori posto mi
denunciano tutti: pazienti infami! —
disse a voce alta, guardandosi allo specchio.
Si
asciugò quei quattro peli che gli erano rimasti sulla testa, in
compenso una barba folta e nera lo rendeva stronzo e impossibile.
“Anestesisti
in grande affanno” era il titolo di uno dei numerosi articoli che
girava sui social network.
— Fino
a ieri eravamo gli specialisti più sfigati e adesso siamo i più
gettonati dello stivale. Nemmeno medici eravamo considerati… ma
andate a fanculo!
Accese
la seconda Marlboro, si accomodò sul water e continuò a spulciare
lo smartphone.
— Fino a trenta giorni fa non conoscevo nemmeno il mio nome. Adesso sono il più figo dell’ospedale. Allora mi presento: sono Piergiorgio Morfina e, indovinate? Sono un Anestesista-Rianiamatore!
http://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpg00adminhttp://antoninogenovese.com/wp-content/uploads/2023/08/antonino-genovese-300x150.jpgadmin2020-03-27 14:00:032020-03-27 12:17:24#1 Fino a trenta giorni fa