#4 Muta da sub
Il conoravirus avrebbe causato molte vittime, di questo ormai Piergiorgio ne era certo. Ma al di là degli infetti e delle polmoniti intrattabili, molti sarebbero finiti sotto le grinfie dei becchini per una patologia tanto diffusa quanto misconosciuta: il cacazzo.
Anche Piergiorgio se la faceva sotto dalla paura. Non solo per quella di infettarsi e di finire con un tubo in gola a causa delle venti (dichiarate) sigarette al giorno, ma soprattutto lo inquietava il terrore di non potersi recare da Nonna Veronica, che lo riempiva di prelibatezze. Il freezer già iniziava a svuotarsi e, se l’isolamento continuava, sarebbe finita a mozzarella e scatolette. Altro che parmigiana di melenzane. I suoi addominali erano in pericolo. Ma meditava un piano b: nonna Veronica poteva tranquillamente lasciare i manicaretti da congelare nell’ascensore, evitando di correre il rischio di infettarsi. Senza la sua pancia da rianimatore non si sentiva se stesso. Avrebbe fatto questo sacrificio per tutelare l’immagine di tutta la categoria. Si ripromise di chiamarla nel momento in cui i viveri fossero davvero ridotti all’osso. Meglio non rischiare la salute della nonna. Si sarebbe rimesso in carreggiata una volta fronteggiata la pandemia.
Piergiorgio, come ogni sacrosanto giorno, varcò la soglia del Sisalvichipuò Hospital, ma quella mattina trovò una bella novità: nella stanzetta del timbro si entrava uno alla volta e bisognava mantenere un metro di distanza gli uni con gli altri. Dopo dieci minuti di attesa sfoderò il cartellino e iniziò ufficialmente il turno sotto gli occhi della dottoressa Gianna Apnea, il direttore sanitario di presidio fresca di nomina, premiata per le sue grandi qualità… sotto la scrivania dell’On. Curcuruto prima e dell’assessore regionale alla sanità dopo. Senza considerare le male lingue che urlavano a gran voce un suo passaggio sotto lo scrittoio (piccolo, ma comodo) del direttore generale. La dottoressa Apnea, mascherina sotto il naso, occhialino da professoressa e capello fresco di piega (con le parrucchiere chiuse Piergiorgio non si capacitava di cotanta ostentata perfezione) vigilava sul rispetto della distanza di sicurezza con un bastone lungo un metro.
— Dottore Morfina, dov’è la sua mascherina? Perché ne è sprovvisto?
La voce sgradevole lo riportò alla realtà, trascinandolo via dal sogno che stava facendo: la tavola cunzata a casa di Nonna Veronica.
— Direttore, buongiorno. Non credo che il mio reparto sia fornito di mascherine in abbondanza. Se ne troverò una, la indosserò.
— Oggi sono arrivate ben cinquanta mascherine. Non si lamenti e rispetti le regole.
Piergiorgio annuì. Non aveva voglia di iniziare il turno polemizzando.
Si voltò e squadrò la dottoressa Apnea: non si sarebbe fatto sfiorare nemmeno con un dito, né sotto, ma tantomeno sopra la scrivania.
Arrivato alla fine del corridoio, anziché continuare dritto verso la scala che lo avrebbe condotto in Rianimazione, svoltò a destra per passare dinanzi all’ufficio ticket. Marina era lì, seduta alla sua postazione. La osservava. Era bella. Una bionda (fausa) con occhi da cerbiatta. Non riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. La donna era impegnata a discutere con una paziente gravida che doveva fare una visita in intramoenia con la sua collega ginecologa Aida Sguaitamatti, ricercatissima dalle pazienti, ma da evitare come la peste per il suo scarso appeal con i libri universitari: non li aveva mai aperti.
Quando Marina alzò gli occhi dalle scartoffie i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri. Piergiorgio sentì che le gambe gli stavano crollando. Quando lei gli regalò un sorriso, lui alzò la mano destra e la salutò. Stava per tornare indietro e imboccare il corridoio per raggiungere il suo reparto, ma si sentì chiamare. — Dottore, dottore.
Piergiorgio si voltò. Era lei. Ebbe il dubbio che si stesse riferendo proprio a lui. Un anestesista che veniva chiamato “dottore” era cosa insolita. Ma i tempi stavano cambiando.
— Sì… sì… sono io.
Piergiorgio, cazzuto, cinico e stronzo rianimatore, iniziò a tentennare e si meravigliò di se stesso: non era da lui.
— Dottore Morfina, lei è un anestesista?
— Sono rianimatore, sì.
Piergiorgio non apprezzava essere etichettato come quello che addormentava e svegliava i pazienti. Il suo lavoro era ben altro. Definirsi rianimatore lo faceva sentire più figo, specie in tempo di coronavirus.
— Volevo chiederle una cortesia.
— Certo, ma a una condizione. Non sono poi così vecchio. Diamoci del tu e mi sentirò meno in imbarazzo.
— Certo, certo — disse Marina. Le sue guance si imporporarono.
— Come ti posso aiutare?
Marina si avvicinò al suo orecchio e Piergiorgio approfittò della vicinanza per assaporare il suo profumo. Ne fu subito certo: si trattava di Bottega Veneta. Il suo olfatto non mentiva mai. Poteva riconoscere ogni tipo di fragranza.
— Puoi procurarmi una mascherina FFP3?
Piergiorgio si sentì preso in contropiede. Ipotizzava altro: una cena in un locale romantico (post isolamento), un viaggio all’Allianz Stadium a vedere la Juventus (post riapertura campionati), una passeggiata in riva al mare (le spiagge il premier Conte le aveva chiuse o no?).
— Veramente… non penso che ne abbiamo… forse una… o due…
Il volto angelico di Marina si rabbuiò. Un velo di delusione le adombrò lo sguardo.
— Ma non ti preoccupare. Te ne procurerò una. Per me niente è impossibile.
Il sorriso carico di fiducia della donna ristabilì il suo equilibrio con l’universo.
— Grazie, Piergiorgio. Sapevo di poter contare su di te.
Avrebbe voluto baciarla, ma in tempo di isolamento non era il caso che si lasciasse andare in slanci d’affetto. Mentre Marina tornava alla sua postazione di lavoro Piergiorgio non poté fare a meno di radiografare il fondoschiena parlante su cui sperava di far morire, un giorno non troppo remoto, la sua mano.
La soddisfazione di averla resa felice per la prima volta durò il tempo delle scale, perché Gargamella sbraitava al telefono con la farmacista. I DPI sarebbero rimasti un sogno.
— Caposala, con che cosa ci proteggeremo dall’infezione? Arriveranno molti casi. Se raggiungiamo solo il 10% dei numeri della Lombardia siamo fottuti, lo sai?
— Ti rispondo in italiano così mi capisci: con una beata minchia!
— A me serve una FFP3.
— E per fare che?
— Fatti miei.
— Non ce n’è! — Gargamella non reggeva più lo stress. Ad ogni richiesta scattava come una molla.
— Ma possono lasciarci morire in questo modo?
— Ti ricordo che durante la seconda guerra mondiale ci hanno mandato in Russia con le scarpe di cartone. Ti meravigli se non abbiamo tute in Tyvek e mascherine FFP3?
— A me ne non me frega niente delle tute, mi serve una mascherina.
— Compratela in ferramenta!
Forse con Marina non avrebbe fatto cattiva figura. L’avrebbe conquistata. In tempo di coronavirus una FFP3 è più accattivante di un mazzo di rose rosse. Si allontanò senza degnare Gargamella di uno sguardo e si fiondò nella stanza del medico di guardia, lontano da orecchie indiscrete. Da quel guaio poteva tirarlo fuori solo il suo amico scrittore Edoardo. Compose il numero. Al terzo squillo rispose.
— Amico mio.
— Stai disturbando la mia ispirazione… — il tono sprezzante di Edoardo voleva significare solo una cosa: era in fase creativa.
— Scusa, ma è una cosa vitale.
— Sto scrivendo una scena importante del sequel del mio romanzo. Questi cinesi non mi avranno mai!
— Smettila con queste cazzate delle teorie complottiste. Nessuno vuole bloccare il tuo estro creativo. A proposito, come hai deciso di intitolare il secondo romanzo della tua saga?
— L’asiatica sulla scrivania.
— Originale.
— È un romanzo erotico a sfondo sociale. Ha alla base la lotta della società contro il vilipendio dei virus. Ma tu non puoi capire, del resto infili aghi nella schiena della gente e tubi tra le corde vocali.
— Ho bisogno di un favore. — Piergiorgio andrò dritto al sodo.
— Sono tuo amico, anche se mi hai tradito non leggendo il mio romanzo.
— Vai in ferramenta e compra una FFP3. — Piergiorgio ignorò l’offesa dell’amico.
— Una mascherina?
— Sì. Ma bada bene che sia FFP3.
— Ok.
— Fammi sapere se ne trovi. Vanno a ruba. In ospedale non ne abbiamo e la farmacia non sappiamo se ne fornisce.
— Consideralo fatto. In casa ne ho sei confezioni da cento.
— Cosa?
I quattro peli castani sul cranio di Piergiorgio si drizzarono.
— Con questo romanzo sfiderò i potenti del mondo e metterò in discussione le loro certezze. Ho pensato che dovevo proteggermi dai loro attacchi. Dopo il COVID19 ci sarà il COVID20. Devo essere pronto.
— Hai 600 mascherine a casa?
Piergiorgio immaginò il ghigno di soddisfazione dell’amico all’altro capo del telefono.
— Mettimene una da parte. Non fare lo stronzo.
— Ti aspetto dopo il lavoro, ma ora fammi lavorare. Ho molto da fare.
Piergiorgio stava per liberare il carattere calabrese fumantino, ma la chiamata per un cesareo di urgenza lo riportò al dovere.
Al Sisalvichipuò Hospital i tagli cesarei erano come le ciliegie: uno tirava l’altro. E per un anestesista di provincia che si rispetti erano pane quotidiano. Non ebbe il tempo di riagganciare la chiamata proveniente dal reparto di ostetricia che sentì urla provenienti dal complesso operatorio.
— Un cesareo. Un ceareoooooooooo.
Era Aida Sguaitamatti.
— Ma è urgente-urgente? C’è bradicardia? Sanguina?
— No.
— Ma che urgenza è? — chiese Piergiorgio.
La voce di gallina di Aida riempì l’antisala.
— Il cesareo è urgente. Vedi? Ti ho fatto il foglio — asserì la ginecologa, sbattendo la cartella sulla scrivania dell’accettazione. — E sul cesareo devi stare zitto. Decido io. Tu lo sai chi sono io?
— Una gallina che urla! — rispose Piergiorgio.
— Come ti permetti.
— Senti, io ti ho solo detto che la situazione non è così urgente da fare sto casino. Siamo in tempo di coronavirus e la dovreste smettere con le finte urgenze programmate dal giorno prima!
— La signora è già pronta, digiuna da ieri sera — affermò Aida Sguaitamatti, trotterellando.
— Ah certo! Hai visto che mi prendi in giro? È programmata e me la passi d’urgenza!
Piergiorgio girò i tacchi e si diresse verso l’accettazione. In tutti gli ospedali d’Italia l’anestesista era considerato lo zerbino. Ma i tempi stavano cambiando. Se si fosse trovato a decidere chi intubare o no per carenza di posti, avrebbe preferito la dottoressa Apnea alla Sguaitamatti. E con questo pensiero aveva esplicitato quanta stima nutriva nella ginecologa.
— Sbrigati! Non perdere tempo. — Aida continuava a urlare.
— Devo visitarla, far firmare il consenso. Stai calma e non urlare.
— Tu, dico a te! — La ginecologa si rivolse all’infermiera. — Il tavolo è pronto? Hai avvisato il Nido?
Piergiorgio rideva di sottecchi. La verità era una: Aida Sguaitamatti sarebbe stata una vittima, ma il coronavirus le sarebbe stato lontano, acida per com’era. A lei ci avrebbe pensato il ben più temibile cacazzo!
#4 Muta da sub
Piergiorgio odiava lavorare la domenica, innanzitutto perché gli toccava il turno di dodici ore, dalle otto alle venti, con annessa reperibilità notturna dalle venti alle otto. Ma anche perché l’ufficio ticket era chiuso e non avrebbe potuto scambiare due chiacchiere con Marina, la bionda fausa sulle cui labbra avrebbe voluto perdere i sensi. Ma una domenica sì e l’altra pure, vista la carenza cronica di rianimatori, dettata dalle scelte scellerate della politica, si ritrovava ad abbronzarsi con le scialitiche con chirurghi di ogni specie alle calcagna. E mentre l’on. Curcuruto di Forza Calabria pranzava con la famiglia e meditava nuovi metodi per prendere in giro i cittadini e ficcargliela senza lubrificante nel didietro, i rianimatori, animati dal senso del dovere e sostenuti da un giuramento, si facevano in quattro per non abbandonare i pazienti. Piergiorgio si scagliò contro Ippocrate: ma se proprio voleva giurare, perché non giurava solo lui anziché scassare la minchia a tutti i medici nei secoli dei secoli?
Ma i cari onorevoli, provenienti da commissioni, scuole di pensiero e maestri diversi, non avevano capito (o facevano finta di non capire) che la sanità calabrese era già allo sbando prima del cornonavirus. Solo che fino al cinque marzo nessuno si era mai accorto di quanto fossero importanti gli anestesisti-rianimatori: sottopagati, sfruttati, e con la dignità sotto le scarpe.
Piergiorgio salì le scale che dall’UTIC lo portavano direttamente in Rianimazione. Aveva una Marlboro spenta all’angolo della bocca e la testa incassata nel piumino. Era quasi primavera, ma le temperature si mantenevano fresche persino in Calabria.
Gargamella lo accolse con la solita risata accogliente e ironica.
— Te la sei portata la mascherina da casa?
Piergiorgio sfoggiò trentasei denti perfetti e senza degnarlo di una parola, si fiondò in cucina a fumare. Sentiva la necessità di nicotina.
— Per la modica cifra di ottantacinque euro ho comprato una bella mascherina FFP3 — disse.
Gargamella si passò la mano sulla pelata e si trattenne dal commentare.
— Inutile che stai zitto, lo so che pensi che con ottantacinque euro ti facevi una bella mangiata di pesce. Ma ieri sera sono andato in farmacia e mi sono accaparrato l’ultima all’asta. Sai com’è? Per la salute…
— Noto che il periodo ha provocato una piccola maggiorazione sui costi — ironizzò Gargamella.
Finita la prima, Piergiorgio accese la seconda Marlboro. Nello stesso tempo di avvicinò alla moka e iniziò a prepararla.
— Te le sei lavate le mani? — chiese Gargamella.
Piergiorgio disse: — Il caffè è bollito, il virus muore.
— Perché non hai la mascherina chirurgica? — lo incalzò il caposala.
— Perché stamattina ho lavato i denti col Betadine e poi perché il fumo uccide il virus.
— Fossero tutti parsimoniosi come te, avremmo mascherine chirurgiche in abbondanza.
— Finalmente è arrivata la fornitura — disse compiaciuto Piergiorgio dopo aver acceso il fornello a induzione.
Gargamella rise di gusto. — Se si può chiamare fornitura… un pacco di mascherine chirurgiche.
— E dopo le scarpe di cartone, ci danno le fionde… — Piergiorgio avrebbe preso per il collo l’on. Curcuruto e gli avrebbe fatto rimangiare tutte le bugie che raccontava agli elettori.
— Il tuo amico… sì… il politico della tua città. Come si chiama?
— Curcuruto. — Esatto. Proprio lui. L’uomo copertina.
— Ha dichiarato che la Calabria è pronta, che la nostra rianimazione passerà da quattro a otto posti e che il conoronavirus non ci spaventa, che si è interessato personalmente con l’assessore regionale alla sanità per ottenere i DPI.
— Hai visto? Siamo a posto. — Piergiorgio tolse la moka dalla caffettiera e si versò una dose generosa di caffè.
— Ne vuoi? — chiese, rivolto a Gargamella.
Il caposala lo guardò torvo. — Leva le mani. Ognuno si versa il suo!
Il cacazzo da coronavirus ormai dilagava.
Piergiorgio non ebbe il tempo di terminare la sigaretta. La sirena del 118 risvegliò il pronto soccorso, che sonnecchiava senza troppo da fare. Il suo sesto senso che si stesse per scontrare con una supercazzola gli provocò una scarica di adrenalina. Inconsciamente si drizzò sulla sedia. Non passò nemmeno un minuto che il telefono della rianimazione squillò. Si trattava di un’anziana, sospetto COVID19. Il coronavirus era arrivato anche al Sisalvichipuò Hospital. Anche se quell’ospedale di provincia non era stato individuato come COVID, era naturale che i pazienti infetti sarebbero arrivati anche lì, peccato però che i DPI languivano.
Gargamella tirò fuori una tuta in TNT.
— Ma non doveva essere in Tyvek?
— O questa, o niente.
Piergiorgio si vestì e imbracò di tutto punto. Scafandrato, sembrava un astronauta pronto ad andare sulla luna. Aveva percorso solo pochi gradini, ma già era un bagno di sudore. Il facciale filtrante (che aveva comprato in farmacia) gli impediva di respirare bene, la tuta lo impacciava nei movimenti, la visiera protettiva gli riduceva la vista.
Ma a Piergiorgio non importava. Era nato per essere un rianimatore. Era il suo compito ed era pronto.
La vecchietta era con altissima probabilità un COVID. Il tampone era partito appena la paziente aveva messo piede in ospedale. Piergiorgio aveva capito a occhio che la situazione era torbida. Aveva fatto ciò che era giusto: intubazione oro-tracheale e ventilazione meccanica, in attesa degli esami strumentali e dell’esito del tampone, che sarebbe stato dirimente per indirizzarla verso il policlinico di Catanzaro, dichiarato dalla regione centro COVID di riferimento. Ma senza l’esito del tampone sarebbe rimasto in pronto soccorso nella stanza dedicata e isolata.
Erano le ventuno quando Piergiorgio alzò lo sguardo verso l’orologio della sala rossa. Si appoggiò su una sedia. La vescica pulsava sul basso ventre, assomigliava ormai alla testa glabra di Gargamella. Sorrise sotto la FFP3 per la battuta che gli era venuta in mente nonostante lo sconforto che lo assaliva. Era rinchiuso nello scafandro da dodici ore e una sacrosanta pisciata se la sarebbe fatta, ma visto che la tuta era l’unica disponibile, come avrebbe potuto indossarla di nuovo? La mascherina era diventata un tutt’uno con la sua faccia. La barba prudeva. Gocce di sudore scivolavano dalla fronte e sugli occhi, rendendo difficile vedere.
Buio. Pensava al domani e vedeva solo una coltre fuligginosa. Quando sarebbe arrivata la primavera per allontanare la bruma del mattino? Un solo pensiero lo tirò su di morale: i cannelloni di nonna Veronica. Ne avrebbe fatto una scorpacciata appena arrivato a casa. Sempre se avesse avuto l’opportunità di togliere quella maledetta tuta. In quell’istate aveva capito perché in ospedale i DPI scarseggiavano. Era tutto a beneficio degli operatori sanitari: non avrebbero sofferto per ore e ore rinchiusi in quella sauna. Ogni istante sembrava non trascorrere. L’orologio alla parete sembrava fermo sempre alle ventuno.
Alle sei e dodici minuti del mattino (venti ore dopo l’esecuzione del tampone) sbucò dal corridoio la testa di Ciccino Sampei, l’infermiere del Pronto soccorso che era rimasto a dargli una mano (a distanza).
— Positivo, dottore! — disse, con addosso l’apprensione di una famiglia a casa da cui tornare. Il volto sorridente dell’infermiere era un marchio di fabbrica, ma la pandemia aveva spento ogni voglia di ironia, nutrendo la paura negli angoli nascosti dell’animo umano.
— E ora che si fa? — chiese Piergiorgio, stremato.
— Mi metto la divista e arrivo. Il posto è al policlinico di Catanzaro.
— Ma non lo trasferisce il 118? — urlò Piergiorgio da sotto la tutta. La sua voce rimbombava.
— No, dicono che loro non si muovono. Sono tutti impegnati.
Piergiorgio imprecò contro la costellazione di Orione, l’Orsa Maggione e anche la Stella Polare.
— Ma i protocolli? Le procedure? Gli accordi? Le riunioni?
— Tempo perso, duttureddu! Siamo in guerra. E n’amu arranciari!
Ciccino aveva ovviato alla carenza di DPI: si era portato da casa la sua muta da pesca.
Piergiorgio rise a crepapelle, tanto da farsela sotto (e non era una battuta).
— Imbracato così anche il coronavirus si spaventa!
— Dottore, solo questa ho. E non mi lascia scoperto in nessuna parte del corpo. Guardi. — Ciccino si esibì in una piroetta.
— Ti mancano le pinne! — Piergiorgio non ce la faceva a stare serio. Sarebbe morto il giorno esatto in cui avesse smesso di ridere. Un altro schizzo di pipì alleggerì il suo ventre dolente.
Pronti, partenza e via.
Arrivarono a Catanzaro, dove pareva che le cose funzionassero meglio del Sisalvichipuò Hospital.
Era mezzanotte quando finalmente Piergiorgio svuotò la vescica. Era in un bagno di sudore quando uscì dalla toilette del policlinico. Adocchiò un distributore automatico, avrebbe avuto bisogno di due litri di acqua, ma non ebbe il tempo di fare due passi. Tutto divenne bianco.
La vita gli passò davanti insieme alle tempeste che lo avevano sbattuto come un relitto sugli scogli. Se ripensava a quello che aveva visto e vissuto, il domani non poteva che riservargli solo bellezza. Ma proprio quando la primavera sembrava essere arrivata prepotente nel suo animo, era sopraggiunto lui: il virus made in china.
— Duttureddu, duttureddu… — Ciccino lo schiaffeggiava con violenza.
Piergiorgio aprì gli occhi. Alla vista dell’infermiere, li richiuse.
— Sono vivo, ma ti giuro che se me ne dai un’altra mi alzo e ti prendo a calci in culo fino a casa.
Avrebbe preferito le labbra rosso fuoco di Marina e i suoi occhioni ambrati, ai riccioli sporchi e sudati di Ciccino.
— Torniamo a casa — disse Piergiorgio.
Il Salvichipuò Hospital di lunedì mattina profumava di casa. Evitò di passare davanti allo sportello dell’ufficio ticket, non voleva che Marina lo vedesse in quello stato pietoso. Ma non si può sfuggire al destino e quando varcò la soglia della porta scorrevole d’ingresso lei era lì, al bar. Accanto a lei c’era Umberto Desiderio, famoso per i suoi corteggiamenti senza freni. Il volto già stanco di Piergiorgio si increspò ancora di più, amplificando il solco sulla fronte.
Umberto, vestito di tutto punto con una camicia griffata e il camice bianco lindo e profumato, si atteggiava con la splendida Marina, che quel giorno sembrava più bella del solito.
Piergiorgio non riuscì a trattenere l’indole sanguigna e l’embolo partì senza possibilità di bloccarlo. Si avvicinò ai due. Sembrava Mohamed Alì.
— Scusate se interrompo la vostra colazione, ma non siete a un metro di distanza.
Umberto si voltò senza parlare, contrariato. Di certo Marina doveva essere difficile da conquistare: era la strafiga del Sisalvichipuò e le sbavavano dietro fior di uomini pronti a lasciare le famiglie per un posto nel suo cuore.
— Scusa?
— Hai capito bene. Allontanati!
Il tono di Piergiorgio non ammetteva repliche.
Marina restò in silenzio ad osservare la scena, mentre i due uomini lanciavano saette dagli occhi. Poi intervenne: — Ha ragione Piergiorgio. Torno a lavoro. — Indossò la mascherina e si diresse all’ufficio ticket. Il fondoschiena della donna, fasciato in un vestitino blu aderente, iniziò a cantare la nona di Beethoven e la giornata di Piergiorgio iniziò a illuminarsi.
Nello stesso istante l’on. Curcuruto se ne stava sbracato nella sua piscina privata coperta con un Moscow Mule in mano e l’i-phone nell’altra. Controllava i commenti dell’ultimo post su Facebook. La sua foto mentre arringava al palazzo della regione faceva veramente effetto. E sotto il messaggio criptico: Sto lavorando per voi. Fatti, non pugnette! c’eranoduemilatrecento “mi piace” e commenti da tifo da stadio. Li aveva conquistati tutti con quattro puttanate. Anzi no… li aveva presi per il culo!
© Antonino Genovese