#9 Eparina
Il turno di guardia era cominciato come ormai avveniva da oltre trenta giorni. Niente baci, abbracci o pacche sulle spalle. Resistevano sorrisi forzati a battute stentate, pronunciate a denti stretti. Le abitudini erano cambiate e le cene in compagnia erano annullate, ognuno provvedeva per sé. Gli sguardi era intrisi di paura e diffidenza.
Piergiorgio pranzò con la solita accoppiata mela e banana. Cercò lo specchio in bagno, ma era stato divelto e posizionato nella stanza vestizione. Doveva smaltire la pancia da muratore, ma alla birra non riusciva a rinunciare. Potevano togliergli tutto, ma non la sua Cristalli di sale, in tal caso avrebbe alimentato i nuovi vespri: la birra Messina non dovevano toccargliela.
Quella mattina di fine marzo sembrava tranquilla. I contagi in Calabria non stavano raggiungendo i livelli della Lombardia. Non comprendeva se fosse per l’esiguo numero di tamponi effettuati, per le misure restrittive di isolamento, perché un dio li stesse proteggendo oppure (ipotesi più plausibile) era solo un colpo di culo.
Piergiorgio si sentiva in un film messo in pausa. Tutto si era arrestato. E anche la sua storia d’amore ne risentiva. Avrebbe voluto uscire, passeggiare e gridare al mondo che Marina era la donna della sua vita, ma non poteva. Il virus made in Cina stava affossando la società moderna, seppellendo abitudini e modi di vivere. Quando tutto sarebbe tornato normale, non sarebbe più stato lo stesso. Quello che prima era scontato, come un aperitivo con gli amici, la presentazione del libro di Edoardo, andare in palestra o correre sul lungomare, andava meritato e conquistato. L’umanità non aveva capito che la libertà era un dono. Così come lo era Marina per lui. Un regalo inaspettato, mentre le sabbie mobili lo inghiottivano. Era la sua alba. I contorni delle cose stavano di nuovo prendendo forma, anche le più banali. Maledetta pandemia! Ma non tutto era perduto. Se fosse sopravvissuto, non avrebbe perso nemmeno un secondo dietro minchiate che non lo rendevano felice. Avrebbe fatto solo ciò che desiderava e lo faceva stare bene.
Si crogiolava tra una Marlboro e l’altra in pensieri esistenziali, quando il telefono squillò per un codice rosso in pronto soccorso. Era il caso di un paziente “normale”, senza febbre o sintomi respiratori. Si trattava di arresto cardiaco che nulla aveva a che vedere con il coronavirus. Ma scese imbracato con ciò che riuscì a racimolare senza intaccare l’esigua scorta per le urgenze COVID accertate.
— Che succede?
— Un IMA.
— Laringo e tubo — ordinò perentorio Piergiorgio.
Quel codice rosso aveva una parvenza di normalità. Un caso grave, certo, dove serviva il sangue freddo e il cinismo di chi, come lui, era nato e viveva di scariche di adrenalina. Era la sua professione e nessuno poteva togliergliela.
— Adrenalina, dài!
Piergiorgio manteneva la calma, si esaltava nei casi spinosi. Gli piaceva stare in mezzo al caos dell’emergenza e dirigere la nave, mentre tutti pendevano dalle sue labbra. Un uomo solo al comando. Si sentiva Marco Pantani su l’Alpe d’Huez e durante tutta la rianimazione cardiopolmonare la paura del coronavirus lo abbandonò e si sentì di nuovo un anestesista-rianimatore. Ma non tutte le fiabe hanno il lieto fine, e quell’arresto cardiaco, scaraventato dal 118 in sala rossa, era finito male. Il rianimatore non è Dio. È fatto di carne e ossa. E il cuore di quel paziente non era ripartito. Piergiorgio si tolse i guanti, rimosse il tubo orotracheale e si sedette su uno sgabello.
— Chiamatemi i parenti — disse. Era sempre compito suo dare la triste notizia.
— Quali parenti? — chiese la collega del pronto soccorso, truccata, pettinata e perfettamente impupata nel suo camice bianco. In pratica non aveva alzato il culo dalla sedia. In fondo c’era il rianimatore.
— Quelli del paziente. Dobbiamo comunicare l’exitus. — Piergiorgio era stranito per la domanda.
— Non può entrare nessuno. Siamo in pandemia.
— E la salma?
— Vai in obitorio. Ci penseranno le onoranze funebri.
— Nessuno potrà piangerlo? Stargli vicino? Salutarlo?
Piergiorgio si alzò. Trattenne un singulto. Si stava rincoglionendo. Marina aveva tirato fuori una parte di lui che non conosceva, sepolta da trentasei anni di inverno. Lui era il dottor Morfina, cinico e freddo rianimatore di provincia. Eppure una lacrima prese possesso della sua guancia al pensiero che il paziente sarebbe morto solo, senza un amico a vegliarlo per l’ultima volta, né un funerale per l’ultimo estremo saluto.
Piergiorgio non credeva in una vita dopo la morte, né in un dio o nelle entità sovrannaturali. Ma alla morte, con cui tutti i giorni conviveva, aveva sempre dato dignità. Era stato il primo insegnamento del suo Maestro, disperso anche lui tra le sabbie del tempo. Gli venne in mente proprio lui, il Maestro, e la dottrina che andava aldilà della tecnica e della farmacologia: l’idea di anestesista-rianimatore, la figura che sta in mezzo al paziente, al chirurgo e ai pazienti, e coordina eventi eccezionali e drammatici. Sempre nella merda, a togliere le castagne dal fuoco, con ferie arretrate che non avrebbero mai smaltito, gli anestesisti-rianimatori dovevano al coronavirus la visibilità che negli ultimi vent’anni non avevano avuto.
Un’altra lacrima.
Ora basta, ecchecazzo!
Fumò una Marlboro e resettò il software. Era ora di tornare cinico e freddo.
Grazie all’ultimo turno e all’isolamento una cosa l’aveva capita: l’unica vera ricchezza è il tempo. Aveva un desiderio: riempire l’ufficio ticket di Marina di fiori, ma era tutto chiuso.
— Dannato DPCM! Non mi fermerai.
Si ricordò che la sua vicina di casa, che non lo credeva nemmeno laureato, anzi, pensava che di professione facesse l’anestetista e si dedicasse a eradicare bulbi piliferi (probabilmente avrebbe guadagnato di più), aveva un piccolo giardino con delle meravigliose rose rosse e tulipani da fare invidia agli olandesi. Li avrebbe presi a titolo di risarcimento dopo tanti anni di soprusi psicologici. Il problema era Spritz, che nel caso specifico non si trattava di una bevanda alcolica, ma un volpino nano bianco e cacacazzo! Abbaiava per partito preso. Anche col canuzzo aveva un conto in sospeso. Ogni santo giorno alle sette in punto iniziava ad abbaiare senza motivo, e se durante l’inverno con le imposte chiuse poteva fare quello che voleva, in estate essere svegliati ogni mattina alle sette era davvero una bestemmia. Piergiorgio aveva ovviato in un recente passato con secchiate d’acqua ripetute, che avevano maldisposto l’animale nei suoi riguardi. Come poteva fare a scavalcare il cancelletto e recuperare (a titolo di risarcimento, sia chiaro!) i fiori per la sua amata senza incorrere nell’aggressione del tremendo mastino?
Lo sconforto durò un istante, una rianimatore trova sempre il modo per ovviare agli imprevisti.
Un tozzo di pane intriso di benzodiazepine e dieci minuti di attesa bastarono per farlo cappottare. Piergiorgio controllò che il torace di Spritz si muovesse, non voleva averlo sulla coscienza e non voleva fare la respirazione bocca a bocca a un volpino malefico.
Rasò a zero le rose e i tulipani e corse via. Un fioraio non avrebbe fatto di meglio. Erano le diciassette quando si presentò all’ufficio ticket, profumato e parato come se dovesse andare a cena fuori nel miglior ristorante di pesce della zona. Teneva in mano i fiori come un trofeo.
Marina era lì, seduta al suo posto, raggiante e con un meraviglioso broncio da bimba impertinente. Piergiorgio non desiderava altro che lei.
— Alza gli occhi, alza gli occhi… — mormorò, sperando che le sue parole fossero magiche.
Gli anestesisti hanno i superpoteri e Marina alzò lo sguardo dal pc e lo vide.
I loro occhi si incrociarono e furono fuochi d’artificio.
Lei sorrise e lui ottenne ciò che desiderava per scacciare via il dolore a cui assisteva ogni giorno. Aveva bisogno del suo sorriso, incastonato nel volto dai lineamenti delicati.
Lei uscì di corsa dall’ufficio e si lanciò a baciarlo, fregandosene dei colleghi che la osservavano e di tutti gli altri medici, infermieri e OSS che avrebbero ricamato pettegolezzi sul loro conto.
— Sono per me?
Piergiorgio arrossì. Un anestesista non si emoziona mai, ma il suo sistema neurovegetativo era proprio andato. Marina con il suo sorriso lo aveva rivoltato come Primo Carnera aveva fatto con Jack Sharke nel’33.
— Sono meravigliose.
Piergiorgio non riusciva a spicciare una parola.
In quel momento passò Umberto Desiderio. Il suo sguardo da squalo famelico li osservò. Piergiorgio notò una smorfia sul volto del collega. L’istinto fu di controllare in tasca se avesse o meno il chiodino d’acciaio per la sua missione rimandata.
Ma l’idea morì ancor prima di nascere, perché Desiderio vacillò. Si appoggiò al muro, alzò di nuovo lo sguardo verso Marina e Piergiorgio, poi si piegò sulle gambe e stramazzò al suolo.
— Piergiorgio, aiutalo! — disse Marina.
— Ma sei sicura che sta male?
— Presto, presto!
— Starà fingendo uno dei suoi soliti malori, come fa sempre in sala operatoria!
— Sta male davvero!
— Io non sono in servizio.
— E allora chiama sopra!
— Va bene, mi farò portare l’eparina. Ma dirò di fare piano, siamo in pochi, non vorrei che qualcuno si facesse male correndo!
Piergiorgio ripensò ai fiori. Chissà se la sua vicina aveva anche qualche crisantemo da prestargli…
© Antonino Genovese
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